(Coming Soon.it)
Così ho pensato di andare verso la Grotta, in fondo alla quale, in un paese di luce, dorme, da cento anni, il giovane favoloso.
Da questi versi di Anna Maria Ortese (Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi, raccolta Da Moby Dick all’Orsa Bianca- Scritti sulla letteratura e sull’arte, Adelphi, 2011), Mario Martone ha derivato il titolo del suo ultimo film, sceneggiato insieme ad Ippolita Di Majo, presentato, in Concorso, alla 71ma Mostra Internazionale d’ Arte Cinematografica di Venezia ed incentrato sulla figura di Giacomo Leopardi, cui dà corpo e anima un bravissimo Elio Germano, capace di esprimerne con emozionante naturalezza i tormenti interiori e il loro appagamento attraverso i componimenti poetici.
Quest’ultimi sono esternati nel corso della narrazione senza alcuna enfasi declamatoria, bensì come appena scaturiti, e soppesati nell’incedere espressivo, da una mente tanto lucida quanto desiderosa di proiettare le proprie emozioni, i propri sentimenti più profondi, verso l’esterno.
Elio Germano (foto di Mario Spada)
Ad avviso di chi scrive non siamo di fronte ad un film biografico/storico propriamente detto, per quanto l’attenzione verso l’ambientazione del periodo, oltre ai raffinati dialoghi, testimonino una cura al riguardo certo pregevole, al pari dei validi apporti delineati dalla calda fotografia di Renato Berta, dall’incedere sonoro di Sascha Ring (musiche in prevalenza di Rossini, con il particolare inserimento in un sequenza di un brano elettronico, Outer, Doug Van Nort) e dal funzionale montaggio di Jacopo Quadri, senza dimenticare l’ottima resa recitativa dell’intero cast. La sensazione primaria che mi ha lasciato la visione de Il giovane favoloso è stata infatti di uno spontaneo fluire verso una riflessione, sempre attuale, relativa alla confluenza fra arte e vita, con la poesia nella fattispecie a far da opportuno tramite tra la percezione di sé e quanto di noi viene colto da coloro che ci stanno attorno, fino alla definitiva accettazione della propria “diversità” di uomo fra gli uomini, una volta esauritosi il confronto-scontro con la “natura matrigna”.
Massimo Popolizio e Isabella Ragonese (Paolina Leopardi; foto di Mario Spada)
La malinconia di una fanciullezza infranta nella sua primigenia purezza ed estemporaneità (emblematica la sequenza iniziale, l’alternanza fra i momenti gioiosi, i giochi in giardino dei tre fratelli Leopardi, e l’esibizionismo imposto dal padre Monaldo, Massimo Popolizio, riguardo la cultura dei suoi figli, del primogenito Giacomo in particolare), trova opportuna compensazione attraverso uno sguardo capace di andare oltre l’infinito di una sovrastante ed eterna realtà, tanto da esprimere un vibrante anelito di conoscenza idoneo a varcare i confini dello “studio matto e disperatissimo” fino a giungere alla felice intuizione che “il vero può esprimersi solo dubitando”. Attingendo in fase di sceneggiatura dagli scritti di Leopardi (l’Epistolario in particolare), Martone ha scelto di visualizzare alcuni punti cardine della sua esistenza, adottando uno stile registico non particolarmente invasivo, fluido, pur assecondando una meditata lentezza nel mettere in scena le varie vicende, dando vita a dei singoli quadri, composti con un certo gusto figurativo, dal richiamo piacevolmente teatrale.
Germano e Valerio Binasco (foto di Mario Spada)
Il regista segue il poeta da vicino, ne scruta i movimenti, a partire dall’infanzia ed adolescenza in quel di Recanati (“Tanto cara da somministrarmi idee per un trattato sull’odio per la patria”), il suo essere un tutt’uno con le pareti dell’immensa biblioteca paterna, circa ventimila volumi, fonte cui abbeverare mente ed anima ma anche gabbia opprimente, simbolo d’imposizioni e dolorose accettazioni in nome di un’obbedienza dal sentore sacrale (la figura quasi silente ma del tutto dominante della madre Adelaide, ben resa, in efficace sottotono, da Raffaella Giordano). Ma lo sguardo di Giacomo oltre la finestra, volto ad osservare una giovane tessitrice nella casa di fronte, la vita che scorre incessante, ogni giorno concluso così simile al precedente, il suo protendersi oltre la siepe di confine della vasta proprietà, lasciano intuire una profonda voglia di ribellione, mai doma, anzi del tutto refrattaria ai malanni che iniziano a minare il suo già gracile fisico. L’affrancamento dalla prigionia sarà in primo luogo interiore, la preparazione alla manifestazione, anche violenta, di uno spirito libero e di un pensiero estremamente coerente, capace di avvolgere con sensibilità ed acutezza quanto lo circonda, grazie allo scambio epistolare con Pietro Giordani (Valerio Binasco) e al successivo incontro fra i due.
La deflagrazione avverrà in seguito, dopo un tentativo di fuga messo in atto da Giacomo, e verterà in un aspro e sofferto confronto con lo zio Carlo (Paolo Graziosi) e il padre (efficace e molto bella al riguardo la scena in cui si evidenzia, con accento visionario, tanto la rivolta “composta” quanto quella, più feroce, intimamente desiderata).
Michele Riondino (foto di Mario Spada)
Una prigione per Giacomo, una volta trasferitosi a Firenze, dove convive con l’esule napoletano Antonio Ranieri (Michele Riondino), vibrante in egual misura di ideali romantici e rivoluzionari, si riveleranno anche gli ambienti intellettuali della città, ai cui esponenti, che vedono nei suoi versi qualcosa di lontano dai prorompenti mutamenti sociali, senza intuirne l’intima portata innovatrice, non mancherà di esternare un acre sarcasmo o un’acquiescenza ironica. E’ fiero fino in fondo della sua libertà di pensiero, del non essere oggetto ad altri vincoli che non siano quelli dovuti ai suoi stessi tormenti o delusioni, ancora delle sbarre a circondarlo, come l’amore non corrisposto per Fanny Targioni Tozzetti (Anna Mouglalis), rassegnandosi a viverlo per interposta persona, visto che la bella dama è invaghita di Ranieri. Solo il soggiorno a Napoli, dove si consumerà il resto dei suoi giorni, consentirà a Giacomo di “vivere secondo natura”, immerso in una realtà tanto vitale quanto disperata, che appare incline, nonostante non manchino atroci sberleffi plebei nei suoi confronti, oltre all’ormai consueta emarginazione intellettuale, ad assecondare quella parte del suo animo più ironica e giocosa.
Anna Mouglalis (foto di Mario Spada)
Martone avvolge la narrazione al’interno di un’atmosfera intimamente verista, protesa a visualizzare un conflitto interiore certo lacerante ma pregno di una sensibilità talmente forte da essere idonea nel portare a compimento una riconciliazione con se stessi e con tutto il creato, fino alla completa assimilazione nelle due entità, ammantata in egual misura di unicità ed eternità. Tale definitivo amplesso fra una disperazione densa comunque di slanci vitali e la consapevolezza, per quanto scevra da ogni illusione, di condurre la propria esistenza verso la direzione voluta, trova la sua sublimazione nello splendido finale alle pendici del Vesuvio, quando i versi de La ginestra s’impossessano dello schermo per renderci, empaticamente, parte integrante del pensiero leopardiano.
Soppesando con intuito ed acume registico libertà espressiva ed affettuosa ma imparziale accondiscendenza, Martone con Il giovane favoloso ci regala una rara e suggestiva commistione fra due potenti e diversi mezzi espressivi, nonché forme d’arte, il cinema e la poesia, idonea a restituire al poeta di Recanati la sua dimensione, umana ed intellettuale, più pura e profonda, al di là di ogni retorica o vacua esaltazione.