Quando penso alla Pop Art penso ai barattoli di zuppa Campbell di Andy Warhol, ai quadri-fumetto di Roy Liechtenstein, alle sculture giganti di Claes Oldenburg, ai collage Richard Hamilton. Ma se questi sono certamente i rappresentanti più famosi di questo colorato movimento artistico, non sono certamente gli unici, così come come l’America e all’Inghilterra non sono state le uniche nazioni in cui questo movimento è fiorito e si è sviluppato. Ci voleva la Tate per organizzare una mostra su quella parte della Pop Art che è sfuggita (anche se sarebbe stato meglio ire lasciata fuori…) ai manuali di storia dell’arte.
Certo, per molti la Pop Art resterà per sempre un indissolubilmente legata agli Stati Uniti. Ma per la sottoscritta, la globalità di questo fenomeno così come la racconta questa mostra, è una vera e propria rivelazione. Chi l’avrebbe detto… Dal Perù al Vietnam, dalla Francia alla Romania, da Israele all’Argentina, la Pop Art affronta temi di propaganda e protesta e condanna in modo rumoroso ed efficace problemi globali come la guerra, il consumismo o la condizione femminile.
Non conosco praticamente nessuno degli artisti in mostra (alzi la mano chi conosce il polacco Jerzy Ryszard “Jurry” Zielinski – nessuno??), e questo é proprio il punto: allontanarsi dalla storia trita e ritrita che vede il movimento nascere a Londra negli anni Cinquanta grazie ad artisti come Richard Hamilton (un altro assente di rilievo dallo show della Tate), prima di esplodere a New York nei primi anni Sessanta. Ma se non ho mai sentito parlare di Zielinski, almeno ho sentito parlare dei nostri Mario Schifano e Sergio Lombardo (di cui ammetto però di non aver mai approfondito la conoscenza) che qui rappresentano il Bel Paese. E che come molti degli artisti di questa mostra, hanno adattato il linguaggio Pop ai propri fini politici.
John F Kennedy and Nikita Krusciov (1962) by Sergio Lombardo. Photograph: Matt Dunham/AP
Ovunque ci si giri si trova rabbiosa insoddisfazione – che si tratti dell’imperialismo americano, della guerra del Vietnam, della bomba atomica, del capitalismo. Il nostra nuovo leader laburista Jeremy Corbyn sarebbe al settimo cielo. Ma seppure colorate e divertenti, la qualità di molte delle opere in mostra semplicemente non è un gran che, e questo da solo mi pare un motivo piú che valido per relegare molti degli artisti qui presenti al dimenticatoio…
Equipo Realidad, Divine Proportion 1967 (Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, Madrid)
Ma ci sono eccezioni, come il caleidoscopico Doll Festival del giapponese Ushio Shinohara, dipinto nel 1966 più colorato e di una canzone dei Beatles (Lucy in the Sky with diamonds salata alla mente, che infatti fu scritta nel 1967…).
Ushio Shinohara, Doll Festival 1966 (Download high resolution image 2.02 MB)
Doll Festival 1966 Hyogo Prefectural Museum of Art (Yamamura Collection)
© Ushio and Noriko Shinohara
A parte la politica, l’altro, tema che ha forse più successo è il sesso – in particolare, il modo in cui le donne erano (sono, ahime, ancora oggi) presentate nei media. Paradossalmente, in passato la Pop Art è stata occasionalmente criticata per essere sessista. Questo almeno fino a quando, di recente, è stato riscoperto il lavoro di un gruppo di artiste Pop Art completamente dimenticate dalla storia dell’arte. Guardandole adesso, certe opere che vogliono condannare la condizione della donna nella società dell’epoca sono davvero all’acqua di rose che con quello che si trova oggi in Internet una donna che mangia una banana non farebbe arrossire neppure un neonato, ma quarant’anni fa dovevano certamente apparire sovversive davvero e la mostra della Tate offre un esempio della loro arte. Basta guardare l’allegra ventata di femminismo dell’austriaca Kiki Kogelnik (1935-1997), di cui non avevo mai sentito parlare prima e che affronta temi femminili con umorismo e ironia, qualità pressoché sconosciute alla rabbiosa estetica femminista degli anni Sessanta e Settanta.
Friends, 1971, by Kiki Kogelnik is part of the World Goes Pop exhibition at Tate Modern. Photograph: Guy Bell/Rex Shutterstock
Per i puristi, questa mostra sarà certamente troppo. Innanzi tutto troppo vasta, con le sue 160 opere; e cronologicamente e geograficamente troppo estesa, in quanto allarga la già elastica definizione della Pop Art al punto di rottura. Che, diciamocelo, se un po’ di revisionismo non è sempre una brutta cosa, omettere i padri fondatori del movimento è un vero e proprio sacrilegio, che senza Warhol & C. non sarebbe esistito quel linguaggio visivo che questi artisti di periferia hanno adottato cosi velocemente e con tanto entusiasmo (ma senza possederlo mai fino in fondo) per dire cose che altrimenti non sarebbero state notate.
Nel complesso, però, questa colorata mostra regala in tutto il suo splendore al neon, una divertente e istruttiva istantanea dello stato della controcultura mondiale degli anni Sessanta e Settanta. È una storia vecchia raccontata in modo diverso. E già di per sé questo merita rispetto…
Londra// fino al 24 Gennaio 2016.
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