Questa forma narrativa ci fa pensare ai grandi romanzi del Settecento (penso a Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos) o del Novecento (L’età dell’innocenza di Edith Wharton), per non parlare dei cartoni animati anni’80 come Lady Oscar. Immagineremo mani pallide e morbide, mentre, parzialmente coperte dal candido pizzo del polsino della camicia che sbuffa dalla giacca, sono impegnate a chiudere lettere scritte con la penna d’oca su carta spessa, per poi sigillare il tutto con ceralacca e fremiti da passione negata.
Se avete scelto la prima ipotesi avete sbagliato.
Il romanzo di Coupland sembra un’antica città su cui si sono stratificati negli anni tutte le idiosincrasie e le paure del protagonista che non parla più con nessuno, non perché non sia interessato a comunicare con gli altri, ma proprio perché ha bisogno di una vera comunicazione.
È come se, a differenza di “tutti gli altri”, Roger (questo il nome del protagonista del romanzo di Coupland) non si fosse arreso a parlare senza dire, a comporre pensieri di cui nessuno s’interesserà mai. Roger non cede, Preferisce tenersi tutto dentro e parlare in maniera asincrona con l’ipotetico lettore del taccuino cui affida le sue paure, le sue recriminazioni e i suoi desideri. Se la comunicazione non è contemporanea, se l’ascoltatore non è li, con lui, nel momento in cui esprime i suoi pensieri, allora c’è qualche speranza di essere realmente ascoltato. È per questo Roger scrive tutto quello che sente in un taccuino e lo lascia al lavoro, lì dove potrà essere trovato da qualcuno che Roger sente simile a lui, qualcuno che leggerà le sue idee, provando a capirle.
Certo, non tutti i vermi accetteranno la risposta che alla fine troveranno in se stessi, se avranno la necessità di scavare, ma avranno almeno compreso se la loro anima è ancora lì o è stata rilasciata su cauzione perché hanno superato la soglia minima di decenza barando all’ultima partita di minigolf. Come dice Roger «Credo che nessuno superi niente nella vita. Ci si abitua e basta.»