"Ho paura che un personaggio della storia che sto scrivendo sia troppo simile a me! Che faccio?! ..."
Credo che più o meno tutti ci siamo trovati di fronte a questo problema, per lo meno all'inizio dei nostri esperimenti di scrittura. Rientra probabilmente nella normalità il bisogno di veder riflessi noi stessi nei personaggi che creiamo, in modo particolare i protagonisti, o semplicemente usare ciò che sappiamo di noi per dipingere e definire gli attori delle nostre storie. E non a caso quando si comincia, spesso si scrive in prima persona.
Il mio primissimo romanzo breve, scritto a 18 anni, conteneva sicuramente queste caratteristiche, tanto che chiunque lo abbia letto (ormai è sepolto da qualche parte a fare la muffa) mi ha detto: "C'è molto di te". Eppure, la protagonista, una certa Alison (ebbene sì, ero vittima della mania dei nomi stranieri a quei tempi) era apparentemente una signora con una vita agli antipodi dalla mia. Quindi, com'era possibile?!
Ho impiegato moltissimo tempo a capire che ciò che mi avevano detto gli amici era la dura verità. E ancora più tempo a capire perché il fatto che Alison mi somigliasse troppo fosse sbagliato. Le persone avvertivano qualcosa di cui io non ero consapevole e soprattutto di cui non capivo il senso.
In effetti, verrebbe da chiedersi: ma che c'è di male se il protagonista della storia che scrivo mi somiglia? Perché non dovrei usare qualche mia caratteristica, qualche lato psicologico o addirittura i miei tratti fisici? Non è un bene che io conosca così bene il personaggio che creo, perché riflette me stesso?
Io credo che queste domande siano più che giustificate, e infatti è difficile comprendere perché tutto questo andrebbe evitato. I rischi, infatti, vanno ben oltre il semplice fatto di risultare troppo riconoscibili o di essere egocentrici, ma riguardano la qualità stessa di quello che scriviamo.
Il punto è che se un personaggio è un nostro alter ego è molto difficile mantenere il giusto rapporto con lui, anzi è quasi impossibile riuscire a considerarlo con il distacco necessario. Continueremo, in modo conscio o inconscio, a considerarlo noi stessi o una parte di noi, e non potremo farlo agire in modo vivo sulle scene. Serve un giusto distacco per tratteggiare i protagonisti e sopratutto per raccontare gli eventi che li riguardano. Anzi, bisognerebbe essere addirittura spietati con loro. Quando l'identificazione è troppo forte, scatta inevitabilmente dentro di noi il desiderio di compiacere il personaggio che ci corrisponde, siamo troppo morbidi e poco oggettivi.
Secondo me, più si va avanti con la scrittura, più si imparano cose nuove e si fa esperienza, maggiore è la capacità di creare personaggi lontani dal nostro modo di essere, esplorando così in modo proficuo altri orizzonti e facendo muovere in modo più naturale i personaggi sulle scene. Infatti, gli eventi e le reazioni non sono più condizionati dalla nostra parzialità.
D'altra parte, ci sono da fare altre considerazioni. Un distacco eccessivo dal protagonista significa zero identificazione da parte nostra e questo comporta che anche il lettore si sentirà distante da lui, troverà difficile immedesimarsi e provare empatia, che invece sono proprio le cose alle quali dovremo puntare come scrittori...
Mi è capitato proprio di recente di leggere un romanzo "freddo", dove i protagonisti erano tratteggiati con grande distacco, al punto che è stato impossibile per me farmi coinvolgere dalla storia.
Forse, dunque, il rapporto più corretto con i personaggi è quello equilibrato, dove riusciamo a calarci nei loro panni ma allo stesso tempo conservare la giusta distanza psicologica. E in questo senso i protagonisti non possono rispecchiare noi stessi.
C'è anche da dire che un pezzetto di noi ci sarà sempre nelle nostre storie. Sarebbe persino assurdo se non fosse così. Le esperienze che facciamo, il nostro punto di vista soggettivo sulle cose, anche dei tratti di noi, finiscono sulle pagine, e da ciò se ne trae beneficio. A patto, però, che venga in qualche modo sublimato.
E poi mi domando: io a che punto sono? Ho trovato un equilibrio o metto ancora troppo di me nei protagonisti dei romanzi? Posso dire che da Alison ne sia passata di acqua sotto i ponti. Pezzetto dopo pezzetto, penso di essermi allontanata dallo specchio, creando protagonisti sempre meno simili a me. Nell'ultimo romanzo ho scelto la sfida di calarmi nei panni di un uomo e in quello prima la protagonista ha una personalità del tutto diversa dalla mia. Certo, come dicevo, qualcosa ci sarà sempre, ma mascherata e quasi irriconoscibile. O almeno lo spero!
Voi cosa ne pensate? Come si raggiunge il giusto rapporto con i personaggi? Avete trovato un equilibrio tra identificazione e distacco?