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Il governo di “viva la diga”

Creato il 21 dicembre 2015 da Albertocapece

digaAnna Lombroso per il Simplicissimus

Qualche giorno fa Renzi, proprio come si trattasse di una esercitazione di boy scout,   ha annunciato che ai 750 uomini già presenti  a Baghdad e nel Kurdistan iracheno con mansioni di “addestramento”, si aggiungeranno altri 450 soldati italiani, con incarichi  di scorta “a protezione dei lavori di manutenzione e  avanzamento” della diga di Mosul, al confine con la Turchia.

Il nostro Paese è impegnato in Iraq nell’ambito dell’operazione  “Prima Parthica”, una missione  che dovrebbe nominalmente  fornire “supporto operativo alle forze di sicurezza irachene, formare i soldati delle forze armate e gli agenti di polizia, contribuire alla messa in sicurezza dei confini nazionali” e per la quale sono stati  stanziati  200 milioni di euro nel solo 2015.

Ma ora i 450 vigilantes sono destinati a compiere una missione strategica:  fare la guardia a protezione di una ditta di Cesena, la Trevi, che si occupa  d’ingegneria del sottosuolo, scavi di gallerie e consolidamenti dei terreni, già attiva in Iraq nel 2008, e che ha vinto l’appalto per le opere di conservazione e prosecuzione della  diga  più grande dell’Iraq e la quarta più grande di tutto il Medio Oriente.

Fu Saddam Hussein a volerla nel 1980 e l’affidò a un consorzio italo-tedesco guidato dall’azienda Hochtief Aktiengesellschaft, che la completò nel 1984. Conquistata dall’Isis nel 2014, tornata sotto il controllo dei peshmerga, presidiata perfino da un piccolo contingente turco del quale l’Irak ha denunciato la presenza “illegale”, la diga  è stata presentata all’opinione pubblica mondiale come una potenziale arma di distruzione di massa: una volta colpita produrrebbe un’onda alta almeno 30 metri causando inondazioni fino a Baghdad. Ma anche senza bombardamenti, mine o cannonate, costituisce comunque un pericolo.

Nel 2006 uno studio del corpo del genio dell’esercito americano ha definito la diga di Mosul una delle «più pericolose al mondo»: tirata su su un terreno argilloso  e su   un deposito di gesso esposto alla corrosione continua degli agenti atmosferici,  la struttura che fornisce acqua a buona parte del nord dell’Iraq e l’energia elettrica agli 1,7 milioni di abitanti di Mosul, impone una manutenzione continua con iniezioni di cemento nelle fondamenta.  Per non dire del fatto che l’Isis ha disseminato di mine tutta  l’area circostante, che la diga potrebbe essere ancora un obiettivo per incursioni “terroristiche” e che questo ha “motivato”  i raid aerei statunitensi, autorizzati dall’amministrazione per “proteggere” i curdi e le altre minoranze etniche minacciate dai miliziani.

Se ufficialmente “il compito della missione  sarà di evitare che la diga di Mosul possa entrare nel mirino di terroristi e far sì che i lavori di risistemazione di questa infrastruttura vitale per l’Iraq – a cura della ditta italiana che ha vinto l’appalto – possano partire” è però lecito sospettare che  la  tutela degli interessi e del personale italiano sia destinata a subire un’escalation bellica, anzi per i più sospettosi naturalmente, non sarebbe altro che un modo obliquo per sottomettersi alle richieste  del padronato della guerra sotto forma di esportazione di democrazia e difesa dai carnefici vestiti di nero, fino all’altro ieri finanziati e foraggiati di armi, trascinando il paese in una guerra all’Isis “sul terreno”, contro il dettato costituzionale, ma si tratta di un sistema di governo, senza un voto del parlamento, ma si tratta di un sistema di governo, incrementando le spese militari: un soldato in missione costa alla collettività un milione l’anno, ma si tratta un sistema di governo, esponendo  il contingente dei 450 uomini a rischi accertati.

Gli scontri tra peshmerga e  miliziani dell’Isis si susseguono con forti perdite da ambo le parti, accompagnati da attacchi missilistici, incursioni con armi pesanti, attentati con autobombe e le forze a presidio della diga hanno denunciato come la situazione sia resa ancora più difficile a causa del  sostegno di cui  gode l’Isis tra la popolazione locale.

Sempre di più sarebbe ora di far sapere al governo che il “pacifismo” non è un vizio arcaico della defunta sinistra o di anime belle radicali e minoritarie, e nemmeno il manifestarsi di antiquati e codardi disfattismi o gli esiti di malintesi sensi di colpa occidentali.  Che quella del governo è una scelta irresponsabile e irragionevole anche se si trattasse semplicemente di una pacifica operazione di “accompagnamento” dell’attività di un’azienda italiana.

Non è la prima volta che succede, anzi, abbiamo a disposizione un caso di studio significativo, sia pure di scala, quello della missione di due fucilieri italiani per scortare una nave privata, incaricati di difenderla da supposte azioni di pirateria.

Una missione mai autorizzata dal Parlamento, che avrebbe dovuto applicare delle regole di ingaggio delle quali non si è saputo mai nulla se non una generica indicazione del ministero della Difesa su eventuali misure di protezione, mai tradotte in progetti legislativi o provvedimenti da presentare alle commissioni competenti per l’approvazione. Senza entrare nel merito di colpe e reati dei due, una colpa e un reato a monte ci sono, quelli di essere talmente soggiogati dall’ideologia della bontà del privato, della necessità di ubbidire alle leggi, sì, ma del profitto, da impiegare i militari in servizi ai comandi di imprese, aziende, armatori. Ed è per questo che tre governi, una ministra europea rivendicata come un formidabile successo diplomatico, una ministra della Difesa posseduta da ossessioni belliche, capi dello Stato – tra l’altro capo delle Forze Armate – e poi inviati dai tripli cognomi, feluche, studi legali, mediatori, non ne vengono a capo, a dimostrazione che uno Stato defraudato di sovranità, in favore di poteri “proprietari”, diventa irrilevante, politicamente e istituzionalmente.

E che l’autorità e l’autorevolezza non si conquistano mettendosi in divisa, alzando in volo aerei taroccati, schierando eserciti telecomandati da lontano, come nei giochi di guerra, nei quali il sangue non è salsa di pomodoro e la morte non è un effetto speciale.


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