E’ davvero triste un Paese dove persino la crescita dell’occupazione è una cattiva notizia. Cattiva perché sospetta nelle cifre e falsata nella narrazione, di fatto un assist pre elettorale del Ministero del Lavoro che se la suona e se la canta, senza che nessuno possa andare a mettere il naso dentro cifre che solo dopo molti mesi saranno corrette dall’Istat, quando certo non compariranno sulle prime pagine dei giornali.
Perciò andiamo a vedere dentro il pacco regalo lanciato da Poletti a una settimana dalle elezioni, perché anche solo agitandolo si sente il rumore del mattone, come nella classica sola da autogrill: secondo i dati che il suo dicastero ha diffuso a maggior gloria del job act ad aprile ci sarebbero state la bellezza di 210 mila assunzioni di cui – esultate – 48 mila a tempo indeterminato, ossia il 52% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Lo so che l’annuncio fa impressione, ma ciò che dovrebbe fare impressione è come mai si arrivi a queste cifre in presenza di una diminuzione dei consumi e della produzione industriale, di un aumento del pil impalpabile e comunque esclusivamente dovuto ai metodi di calcolo cambiati rispetto alla primavera del 2014, a una nuova raffica di licenziamenti annunciati e dulcis in fundo dell’aumento del tasso di disoccupazione. Probabilmente si tratta di un miracolo di Renzi che andrebbe fatto santo subito.
Bene Poletti ci dice che ad aprile ci sarebbero state 756.926 mila nuove attivazioni contrattuali contro 546.382 mila cessazioni e da qui il saldo positivo di 210 mila. Ora è molto singolare che in un Paese di 60 milioni di abitanti ci sia un turn over del lavoro doppio rispetto a quello degli Usa che di abitanti ne ha cinque volte e mezzo di più, cosa da una parte mette in sospetto riguardo alle cifre e alla loro correttezza, ma dall’altro conferma lo stato di crisi profonda in cui versa il Paese: secondo la letteratura economica più accreditata proprio dagli esponenti del governo ( vedi, tanto per fare un esempio, Blanchard, capo economista del Fmi ) è proprio nelle fasi di recessione che aumenta il ritmo sia delle assunzioni che dei licenziamenti e il passaggio vorticoso tra inattività, occupazione e inserimento nelle liste di disoccupazione. Dunque i dati di Poletti, anche fossero veri, dovrebbero preoccupare più che far sorridere e in ogni caso data la volatilità del mercato le misurazioni mensili hanno poco senso oltre ad essere facilmente manipolabili.
Tuttavia il vero fondo di bottiglia spacciato per diamante incastonato del job act è l’aumento dei contratti a tempo indeterminato che si sarebbe verificato rispetto all’aprile del 2014: 48 mila, il 52% per cento in più. Purtroppo è proprio qui che casca l’asino perché con le nuove regole del lavoro il tempo indeterminato non ha più i connotati di prima e diventa in sostanza un contratto precario a scadenza imprecisata e dunque non può essere confrontato con un quadro di riferimento diverso. Oltretutto esso presenta tali vantaggi per le aziende che ci si stupisce come mai i contratti siano così pochi rispetto al totale. Basta prendere le due tabelle qui sotto elaborate dalla Uil per vedere che entro i primi tre anni l’assunzione a tempo indeterminato e a tutele crescenti è un affarone rispetto agli altri contratti a tempo
Come si può vedere ( fare clic sulle tabelle per ingrandirle) gli sgravi contributivi e i tagli Irap sono di gran lunga superiori agli indennizzi di licenziamento e convengono in ogni caso. Anzi il guadagno per le aziende è spesso superiore al salario lordo che pagano. In un mercato del lavoro davvero in ripresa altro che 48 mila o 52% in più, avrebbe dovuto esserci un boom stratosferico rispetto al quale le cifre fornite sono in realtà il ritratto di un flop che riflette molto bene le incertezze e la fragilità del tessuto produttivo.
Non è certo un caso se le cifre sparate ad alzo zero in funzione elettorale perché colpissero nell’ immediato l’opinione pubblica, non hanno poi trovato grandi commenti o approfondimenti, come se le cifre fossero motivo di imbarazzo più che di giubilo. Forse perché alle bugie c’è un limite o forse perché ogni limite ha le sue bugie.