Il Gramsci brutto, violento e cattivo di Alessandro Orsini

Da Bruno Corino @CorinoBruno


A Gramsci nell'Anniversario della sua morte, 27 Aprile 1937

«Il tema dell’educazione torna in una lettera del 27 luglio 1931, quando il figlio Delio stava per compiere sette anni, un’età che Gramsci giudicava decisiva per imprimere l’ideologia comunista nella coscienza del figlio. I bambini – scrive Gramsci – ricevono la comunione a sette anni perché la Chiesa cattolica ritiene che questa sia l’età migliore per gettare le basi della loro identità religiosa. I genitori comunisti avrebbero dovuto agire seguendo lo stesso principio catechistico. Per questo motivo, chiese alla moglie di esercitare il suo “potere coercitivo” sul figlio e di “impressionarlo” rivelandogli che il padre era in prigione per amore del comunismo. Gramsci ebbe una cocente delusione quando seppe che Giulia si era rifiutata di rivelare a Delio che il padre era “in catene” per evitare una profonda sofferenza psicologica al bambino. Gramsci, risentito, ricordò alla moglie di essere un “elemento dello Stato” e le rimproverò i suoi metodi troppo “libertari” che giudicava in contrasto con le esigenze dell’educazione comunista finalizzata all’indottrinamento delle menti».

Ecco ciò che scrive di Antonio Gramsci lo storico Alessandro Orsini

(Cfr. http://rubbettino.horizons.it/~files/File/orsini_Gramsci.pdf) per dimostrare la pedagogia coercitiva e violenta che l’uomo politico sardo esercitava non solo nei confronti degli avversari politici, ma persino dei figli. Il Gramsci dunque che emerge in questo ritratto di Orsini è quello di un uomo fanatico e cattivo, che pur di affermare la sua concezione ideologica non si ferma neanche davanti alle menti innocenti dei bambini. Purtroppo, lo storico si dimentica di citare la conclusione della lettera di Gramsci: «Così almeno mi pare, ma posso anche sbagliarmi. In ogni modo voglio che tu mi senta vicino a te e ai nostri bambini nei giorni in cui si ricorda loro che sono cresciuti di un anno, che sono sempre meno bambini e sempre più uomini».

Perché Gramsci vuole far sapere a suo figlio Delio, che sta per compiere sette anni, che lui è in carcere e quindi lontano dai loro affetti? Perché è un crudele Torquemada che si diverte a torturare psicologicamente i suoi figli? Bhe, a leggere le pagine di questo storico improvvisato sembrerebbe proprio così!

Se l’accademico avesse esercitato coscienziosamente il suo mestiere, se lui fosse stato cioè al servizio della verità e non di una tesi precostituita, si sarebbe preoccupato di indagare con cura la vita di Gramsci. In fondo non dico che dovesse leggere tutto quanto che è stato scritto su Gramsci, ma nei dieci anni – come lui sostiene – che ha dedicato ad analizzare i documenti gramsciani, quantomeno si sarebbe dovuto limitare a consultare almeno quelli essenziali. Ad esempio, se fosse stato uno storico, onesto intellettualmente, non sarebbe sfuggito ciò che riporta la pregevole biografia di Giuseppe Fiori, Vita di Antonio Gramsci, edizione Laterza. Come è noto a chiunque si sia occupato di Gramsci, il padre, Francesco Gramsci, fu arrestato e condannato a quasi sei anni di reclusione per peculato, concussione e falsità di atti (Fiori, p. 15), quando Gramsci aveva esattamente la stessa età che aveva il figlio Delio quando scrisse la lettera citata a suo uso e consumo da Orsini. A quei tempi, scrive il biografo di Gramsci, «il codice non scherzava per simili reati». Ai bambini si raccontava che il padre fosse a Gaeta in visita della nonna.

Lasciamo la parola a Giuseppe Fiori: «Trent’anni dopo, essendosi riproposta una situazione per qualche verso uguale, Antonio Gramsci scriverà dal carcere a Tatiana: “Non so pensare perché è stato nascosto a Delio che io sono in prigione, senza riflettere appunto che egli avrebbe potuto saperlo indirettamente, cioè nella forma più spiacevole per un bambino, che comincia a dubitare della veridicità dei suoi educatori e comincia a pensare per conto proprio e a fra vita a sé. Almeno così avveniva a me quando ero bambino: lo ricordo perfettamente […]. Perciò bisognerebbe convincere [Giulia] che non è né giusto né utile, in ultima analisi, tener nascosto ai bambini che io sono in carcere: è possibile che la prima notizia determini in loro reazioni sgradevoli, ma il modo di informarli deve essere scelto con criterio. Io penso che sia bene trattare i bambini come esseri già ragionevoli e coi quali si parla seriamente anche delle cose più serie; ciò fa in loro un’impressione molto profonda, rafforza il carattere, ma specialmente evita che la formazione del bambino sia lasciata al caso delle impressioni dell’ambiente e alla meccanicità degli incontri fortuiti. È proprio strano che i grandi dimentichino di essere stati bambini e non tengano conto delle loro esperienze; io, per conto mio, ricordo come mi offendesse e mi inducesse a rinchiudermi in me stesso e a fare una vita a parte ogni scoperta di sotterfugio usato per nascondermi anche le cose che potevano addolorarmi; ero diventato, verso i dieci anni, un vero tormento per mia madre, e mi ero talmente infanatichito per la franchezza e la verità nei rapporti reciproci da fare scenate e provocare scandali». Commenta Fiori: «A lui bambino la verità s’era svelata nel modo peggiore, per vie traverse. Ne fu sconvolto». Vi pare che Gramsci volesse rivelare al figlio di essere in galera per «amore del comunismo» o per «amor di verità»?

Ultima annotazione: chi legge il passo di questo “falsario” storico si fa l’idea che Gramsci risentito del fatto che «Giulia si fosse rifiutata di rivelare a Delio che il padre era “in catene», ricorda «alla moglie di essere un “elemento dello Stato” e le rimproverò i suoi metodi troppo “libertari”». Il racconto storico è “montato” come se i due fatti siano avvenuti in due tempi diversi (in un primo tempo Gramsci ordina alla moglie di rivelare la circostanza, in un secondo tempo, vistosi rifiutato l’ordine, la rimprovera aspramente). In realtà, i due passi citati subdolamente appartengono alla stessa lettera, la stessa della quale ho riportato la conclusione («Così almeno mi pare, ma posso anche sbagliarmi»). Ma dire che i due brani fanno parte della stessa lettera per lo storico accademico costituiva un elemento che non si inquadrava nella sequenzialità narrativa, non sarebbe risaltata la supposta violenza coercitiva di Gramsci. Allora meglio spezzare i due brani e far credere che appartengano a due distinte lettere.

Non entro nel merito della pedagogia gramsciana sia per esigenza di spazio sia perché, sinceramente, non vale neanche la pena di confutare le tesi di questo storico improvvisato. Però mi domando, se un accademico può interpolare e “montare” a suo piacimento i documenti storici, che fine farà il mestiere di storico? Quale storia si insegnerà alle future generazioni? Se gli storici di professione lasciano correre supinamente questo modo di scrivere la storia, comincio insomma a dubitare fortemente sulla serietà di questo mestiere.


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