Il Gran Maestro, di Giuseppe Germinario

Creato il 24 dicembre 2012 da Conflittiestrategie

Il Gran Maestro, di Giuseppe Germinario

Se un merito va riconosciuto a Mario Monti è di contribuire ad una maggiore chiarezza del dibattito; ha scelto il suo avversario, Silvio Berlusconi, il suo referente, Bersani, quest’ultimo con un Vendola più addomesticato; ha definito il perimetro entro cui si schiereranno e si formeranno le forze politiche a lui affini; ha tracciato gli orientamenti che ispirano il suo “Cambiare l’Italia, Riformare l’Europa: Agenda per l’impegno comune” di prossima pubblicazione. La conferenza stampa di fine anno tenutasi oggi, domenica 23 dicembre, è stata esemplare nella sua semplicità e incisività. Come al solito i commenti a caldo dei pontefici dell’informazione, a cominciare da Mentana, hanno piegato il senso delle sue dichiarazioni alla logica della quale è vittima la quasi totalità del giornalismo italiano: la riduzione al semplice scontro di fazioni partitiche nel palcoscenico politico e, quindi, l’implicito sostegno tattico allo schieramento di Casini e Montezemolo.

In realtà Monti ha detto molto di più e con un respiro che va al di là dell’attuale scadenza elettorale:

  • Non autorizza nessuno ad utilizzare indebitamente il suo nome; l’avvertimento a Casini e ad alcune componenti del PDL mi pare evidente.
  • La società civile è diffidente nei confronti dei politici professionisti compresi quelli che intendessero sostenere il suo programma
  • Piuttosto che tra destra e sinistra il discrimine della lotta politica dovrebbe essere l’Europa e il rinnovamento
  • Nei tre schieramenti classici e ormai antiquati ci sono cespugli europeisti, innovatori e liberali che andrebbero raccolti sulla base del nuovo discrimine

Il Professore, quindi, più che partecipare e tentare di vincere queste elezioni cerca di orientare il dibattito della campagna elettorale in modo che i partiti in qualche maniera rinuncino parzialmente alla demagogia necessaria a raccogliere voti e alleanze talmente eterogenei  da inficiare però la fluidità successiva dell’azione politica; Monti, infatti, ha già più volte dichiarato di non farsi troppe illusioni sulla frantumazione dei partiti prima delle elezioni. Dal PDL si aspetta poche defezioni importanti, meno del numero di dita delle mani. Paradossalmente, aggiungo io, potrebbe conseguire qualche successo più rilevante dal versante meno ostile, il PD. Sulla base del risultato elettorale, poi, si porrà il problema della coalizione, di chi sarà il Capo di Governo e di quale ruolo svolgerà Monti stesso da una parte e della destrutturazione degli attuali partiti dall’altra. L’altra preoccupazione è quella di circoscrivere il più possibile la campagna elettorale di Berlusconi il quale con i suoi argomenti, in caso di successo, rischia di innescare, contro le sue stesse intenzioni, una politicizzazione del processo di disgregazione dell’Unione Europea attraverso la crisi di una delle due correnti politiche europee, il Partito Popolare Europeo; da qui il senso della recente trappola perpetrata a Bruxelles dal PPE con l’incoronazione di Monti e il processo a Berlusconi.

Per tranciare in questo modo il dibattito politico, il Presidente dimissionario deve ricorrere a sua volta a delle forzature; deve  discriminare tra chi sostiene o ritiene compatibile il suo manifesto ed è in possesso, quindi, dell’attestazione di europeista ed innovatore; gli altri ne sono la semplice negazione. Non esiste pertanto altra dinamica positiva che l’attuale processo di Unione Europea; non esiste altro rinnovamento che il montismo.

Ma Monti, così come l’attuale Unione Europea, in realtà ha molto poco da offrire.

Prospettando una unione da costruire sulle macerie delle nazioni e degli stati nazionali, ignora del tutto i lunghi processi identitari  necessari a creare una comunità, uno stato rappresentativo e una nazione quale dovrebbe essere l’Europa nel caso riuscisse a realizzarsi e quali continuano ad essere gli attuali o almeno quelli che riescono a preservare la propria sovranità. L’Europa, agli occhi di Monti, sarebbe un popolo senza nazione, fatto di persone, consumatori e cittadini muniti di diritti e doveri formali. La sua costituzione sarebbe il frutto di una combinazione accorta dell’azione volontaria di élites e tecnocrati e di una rappresentazione dei cittadini di tipo parlamentare costruita attraverso un semplice atto di volontà di gruppi elitari. L’amalgama e lo sviluppo, invece, sarebbero garantiti dalla costruzione di un mercato continentale libero a sua volta integrato con quello americano e, in qualche momento di là da venire, mondiale.

Una impostazione che evita opportunamente ogni velleità di distinzione di interessi e di identità da quella dell’attuale potenza dominante americana e ogni possibilità di seria e trasparente trattativa tra gruppi e stati nazionali tesa a creare strutture organizzative, statuali, di impresa, culturali necessari per la formazione di blocchi sociali e popoli con una loro peculiarità.

Una visione simile, sia pure allo stato embrionale, apparteneva al De Gaulle degli anni ’60, quando propugnava un processo unitario fondato sugli stati nazionali e sull’integrazione verticale dei settori contestuale alla creazione del mercato europeo, piuttosto che sulla mera liberalizzazione dei mercati e sul continuo frazionamento delle imprese, sull’anomia culturale condita di retorica; la gestione di questi processi, però, comporta l’esistenza di gruppi nazionali forti, consapevoli degli interessi nazionali ma disposti a trattare con i vicini di casa e a delimitare l’azione rispetto alle altre potenze mondiali. Una condizione antitetica rispetto alla situazione europea scaturita dalla seconda guerra mondiale, proseguita nel bipolarismo, protrattasi ulteriormente, con qualche illusione fugace, con la caduta dell’URSS.

Quello che Monti ha da offrire è, più che una speranza, l’accettazione di una pesante regressione in alternativa ad una regressione ancora più marcata in caso di tradimento del suo verbo; l’occupazione tutt’al più  delle nicchie lasciate libere dalle forze dominanti. La recente vendita di Avio aereonautica alla General Electric, il taglio integrale per il secondo anno consecutivo dei finanziamenti sulla ricerca aerospaziale, i continui attacchi ad ENI e Finmeccanica, le scelte di politica estera e di difesa, la nuova enfasi riconosciuta alle scelte di Marchionne, esempi tra i tanti, lasciano intravedere quale sia la consistenza di queste nicchie e quali saranno le dinamiche di un libero mercato ridotto a campo di azione di lobby e gruppi organizzati nascosti dietro l’ideologia del consumatore e produttore individuale. Lascia intravedere, altresì, quali saranno le forze suscettibili di sostenere l’impulso “riformatore” di Mario Monti: i beneficiari di queste nicchie e i settori aggrappati alla possibilità di salvaguardare parte delle proprie prerogative parassitarie. Qualche accenno a questo arrembaggio l’abbiamo già visto nella gestione dei processi di liberalizzazione e nelle modalità di riorganizzazione della spesa pubblica avviati quest’anno. Sino ad ora Monti ha avuto buon gioco nell’accusare i partiti come zavorra antiriformatrice; il groppo ha invece un potere e una inerzia ben più rilevanti, radici ben presenti nel suo stesso governo tecnico “riformatore”.

Un dibattito simile ebbe luogo in Italia nell’immediato dopoguerra, ma in un contesto diverso. L’Italia di allora sviluppò rapidamente il settore tessile, ma con aspri scontri interni e una politica dirigista sostenuta dal piano Marshall riuscì a sviluppare anche una notevole industria meccanica e avviare uno sviluppo importante anche se complementare. Gli americani vincitori, allora, dovevano creare un blocco espansivo capace di alimentare la propria forza, offrire sbocchi alla propria capacità industriale e finanziaria, fronteggiare la minaccia sovietica, questo creò gli spazi necessari allo sviluppo e all’emergere di figure come Mattei. Oggi, al paese, viene richiesto un sacrificio di natura ben diversa e con più invitati alla condivisione delle spoglie, compresi alcuni paesi “amici” europei.

Il trasformismo e l’avventurismo di Berlusconi, a sua volta, rappresentano l’alter ego perfetto per giustificare e fornire motivi e forza a questa politica, per rinfocolare i timori sui quali basare i propri successi, così come avvenuto, in un contesto per ora ancora più drammatico, in Grecia.

È sempre più curiosa e intrigante, tra l’altro, l’affinità tra le tesi di Berlusconi, anche lui ormai ispirato dalle teorie espansiviste e di sovranità monetaria di Krugman e quelle antigermanocentriche  dei neoantimperialisti smemorati.

Non appena sarà pubblicato il manifesto di Monti, sulla falsa riga dei miei precedenti articoli di un anno fa sull’Unione Europea,  approfondirò tutti questi aspetti.


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