Il Granchio (u’pranchiu)

Creato il 27 maggio 2014 da Leggere A Colori @leggereacolori

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Santino è un genio. Un genio moderno, naturalmente ispirato, così spontaneamente innovativo e semplice al contempo che sarebbe impossibile classificarlo. Per intenderci, nulla a che vedere con la sregolata smodatezza creativa di un Maupassant, il chiassoso e ingombrante ego di un D’Annunzio (sempre che sia stato davvero un genio); piuttosto si potrebbe scomodare la discreta e silenziosa fertilità intellettiva di qualche oscuro pittore fiammingo, o la delicatezza di qualche vero statista che, nell’ombra, con le sue idee ha dato Gloria imperitura a quelli falsi e mistificatori che la Storia ci ha tramandato dando loro lustro e onori per tutti i secoli dei secoli. Amen. L’unico modo che mi viene in mente così su due piedi per spiegare la genialità di Santino è raccontare la sua breve storia: eccola. Santino abita in un paesino della Sicilia costiera, in cui si respira un odore che sembra provenire da quelli evocati da “Il Gattopardo” e da “I Malavoglia “ insieme e che vive la ricchezza e la gioiosa spensieratezza delle stagioni estive, abbracciata alla povertà dell’ inverno, senza notarne la differenza. Così è per lui – e come lui per molti altri – che vive il suo malessere come una benevola normalità. Santino fa colazione con una birra e una qualsiasi cosa si trovi in una ciotolina di stuzzichini da bar, ma solo per poi dissetarsi con un’altra birra, digerire il tutto con una birra, digerire il digestivo con un’altra birra. Dopodiché è pronto per passare il pomeriggio davanti ad una birra. Ma, a dispetto delle apparenze non c’è da pensare che sia un dissoluto, un inaffidabile vizioso, né di tipo bukowskiano e neppure balotellesco. Santino è buono come il pane nonostante il suo atteggiamento rude, non saprebbe ammazzare una mosca e, a modo suo, è devoto alla donna amata. Se non ci credete… Chiedetelo a Carmela!

Naturalmente il nome è fittizio per ovvi motivi e so che mi perdonerete, ma posso dirvi che conobbi Santino, meglio conosciuto come “u pranchiu”, il Granchio (la maiuscola è d’obbligo!). Il Granchio un giorno entra nell’unico baretto della piazzetta del centro del paese; basso, tozzo, assorto e con la sua caratteristica andatura ciondolante. Dopo aver percorso col medesimo stile i venti metri quadri del “Golden Bar” per una decina di volte e per un tempo approssimativo di venti minuti , o venti mesi, e dopo aver scambiato qualche incomprensibile e biascicata parola con il barista, si dirige senza indugio al mio tavolo: lì, con ammirevole “nonchalance” , affonda quella che doveva probabilmente essere una mano nella mia ciotola delle olive e, senza chiedere né dire una parola, ne tira fuori una parte. Lì per lì rimango basito: cerco di piantargli uno sguardo di disapprovazione fissandolo negli occhi acquosi, ma – sorpreso – non li trovo, nascosti come sono dalle tende di pesante velluto che sono le sue palpebre. Probabilmente inarco anche un sopracciglio ma ad ogni modo torno al mio giornale, proponendomi di non dare eccessivo peso a qualsiasi aspetto che sia contrario allo status di meneghino in vacanza, che m’impongo di rispettare come un sacramento almeno una volta all’anno e che comprende in primis serenità e pace. Tuttavia, dopo aver compiuto un’altra lunga passeggiata per gli infiniti chilometri compresi in quei pochi metri quadrati di bar, quel tozzo e ciondolante soggetto infila di nuovo una delle sue chele nella mia ciotolina delle olive: la mia ciotolina! Le mie olive! Solo stavolta, appena prima di infilarsele in bocca, sussurra quasi un “posso?” “Poteva anche chiederle prima di mangiarsele, no? Ormai…” rispondo, un po’ schifato dalla sua strana e dubbiamente pulita mano nella mia ciotola, più che dalle maniere. Lui non sembra minimamente scandalizzato da come gli ho risposto, si mostra anzi piuttosto risentito perché non ho semplicemente assentito, credo. E mangia ancora! Poi mi sorprendo a riflettere mentre parla di nuovo:” Perché avrei dovuto chiedere? Lo fanno tutti.” Sgrano gli occhi, credo:”Prego? In che senso?” “Niente. Ma lo fanno tutti. Perché io no?” Taglio corto aggrottando le sopracciglia:” Le sembra igienico? Poteva almeno usare uno stecchino!” Breve pausa. “E che cambia? Una volta messo in bocca una volta, magari dovrei cambiarlo? E se ne vorrei mangiarne dieci? Dieci stecchini devo avere?”(no, non ho sbagliato a scrivere, parlò proprio così). Già, appunto, perché dovrebbe? Mi viene in mente in quegl’ istanti che in fondo ha anche ragione: se le olive fossero sul bancone servite con gli stecchini, come dappertutto, una volta usatolo lo stecchino non sarebbe già più pulito e, certamente, nessuno, tantomeno i baristi ci inviterebbero a farlo, o ci si sognerebbe di cambiarlo ad ogni oliva. D’ altra parte, in effetti nessuno ha pure niente da ridire; ma non ci si piglia un’ infezione batterica ogni volta che si entra in un bar anche se davvero bisogna ammettere che in teoria, tanto igienica l’ abitudine non è.

Mi ritrovo dopo quasi vent’ anni e che cosa è cambiato nella vita di società “spicciola”? La Nutella è sempre la Nutella, i telegiornali seguitano a dire che c’è crisi e che d’ inverno fa freddo, gli Americani continuano fieramente a dichiarare guerre in giro per il mondo in nome della pace e i dottori non hanno certo smesso di dirti che devi smettere di fumare anche quando ti fai visitare per una costola incrinata: ma nei bar, avete visto? I bar, quasi tutti, per i salatini nelle ciotole dell’ aperitivo mettono a disposizione IL CUCCHIAINO! Vedrete che entro altri vent’ anni saranno più attrezzati anche per le olive, come già accade in diversi locali ove vengono addirittura servite a parte in un piattino solo per cliente. Oh anticipatore del progresso, con che naturalezza compi il tuo gesto e formuli il tuo pensiero, come il genio incompreso che è rassegnato con serenità ad essere tale! In effetti qualcosa che non saprei dire mi fa intuire, seppur lontanamente, che quell’ indifferenza alla sua stessa, stringente logica deve racchiudere un qualche senso: dopo tutto questo tempo, vent’ anni appunto, mi verrà in mente notando il particolare delle olive. Aggiungo solo che Santino è indifferente ai suoi colpi di genio quanto alle sue sfortune, prima fra tutte quella che lo ha reso celebre con il famigerato soprannome di cui sopra. E il nocciolo della vicenda che mi appresto a raccontare qui subito di seguito, è quello che renderà più chiare molte cose: tra le altre, la ragione che mi fa rimanere in mente santino oggi e a raccontarne delle cose un domani, il vostro domani. Santino un giorno si fratturò una mano. Era un pomeriggio come tanti, il centro del paese era un crocevia per i lavoratori delle due cittadine vicine ed era un po’ più trafficato che in altri orari, ma per gli sfaccendati appoggiati ai muri a calce e per gli abitudinari del posto erano soltanto le solite sei del pomeriggio. Anche lui aveva avuto a che fare con un muro: un muro a cui anch’ egli si appoggiava spesso, talvolta per ore, aspettando di riuscire a vedere, o anche solo a scorgere Carmela (eccola!) che portasse fuori la spazzatura, o che uscisse di casa per andare a far commissioni.

Carmela era il suo grande amore da quando entrambi avevano sei anni, e quello stesso muro era l’ amico a cui per secoli aveva confidato e raccontato il suo amore per lei, a cui aveva forse trasmesso in qualche modo le suo gioie e le sue pene e, si può dire, gli era affezionato e, mi è parso di capire da ciò che mi hanno raccontato in seguito, probabilmente in qualche maniera lo rispettava anche, per la discrezione con cui riceveva le sue confidenze più intime. Difatti quel giorno non ce l’aveva con lui, il muro, che pure gli aveva rotto quella mano nel momento in cui, dopo l’ennesimo rifiuto da parte di lei, per la disperazione vi aveva scagliato un pugno contro. Fatto sta che, con la mano gonfia, quel pomeriggio Santino pensò di fregarsene dei commenti di quelle solite facce appese ai muri ed entrò al Golden Bar , chiedendo una birra per pensare meglio. Assorto, udiva in sottofondo, o come un’ eco distante le voci preoccupate di Giovanni il barista e di Tonì “lo Spagnolo” che lo esortavano a recarsi immediatamente al Pronto Soccorso perché quella mano era diventata spaventosamente enfia e violacea: ma restò immobile a fissare il pavimento con gli stessi occhi acquosi e assenti di sempre. Poi terminò d’ un fiato la sua birra tenendola con la sinistra – poiché la destra doleva – ed uscì dal bar salutando come al solito. All’ ospedale di P., venti chilometri più a ovest ( nessuno sa come ci arrivò, dato che non aveva l’auto, non chiese passaggi e in paese non c’erano taxi), la vicenda raggiunse il suo Zenith. A chi non è mai capitato di voler evitare un tal dentista, o un certo medico, perché non ha esattamente la fama di essere un Ippocrate? A me, sinceramente, molto spesso. Ebbene, anche l’ ospedale S. Zeno di P. annoverava quel tipo di medico il cui solo nome, quando pronunciato, non solo non ispirava fiducia, bensì incuteva vero e proprio terrore, paragonabile, secondo i miei ricordi della gente di oggi che racconta, a quello che si potrebbe provare nel vostro domani al sentir pronunciare dai nostri governanti il termine “manovrina”, o il solo nome del nuovo Presidente del Consiglio appena eletto, chiunque sia.

Ecco, al S. Zeno di P. tale nomea ce l’ aveva il dottor Santinelli, che riscuoteva tra la popolazione meno consensi di una guaritrice televisiva di oggi. E che fece Santino? “Voglio che mi ingesserebbe soltanto ‘u dottore Santinelli. Soltantemente ‘u dottore Santinelli!”, fu udito pretendere al Pronto Soccorso. Fu accontentato: da allora, data anche l’evidenza delle conseguenze deformanti che già sapete, per tutti, cominciò ad essere “’u pranchiu” e ad esistere una piccola leggenda di paese, tragicomica ma romantica, che è quella che vi ho appena raccontato. Ma perché, ci si chiederà, darsi tanta pena a scriverne? Perché dovrebbe colpire più di altre storielle? Sinceramente non so se quello che provo e ho provato allora può valere per altri quello che è valso per me, ma io personalmente credo che quella creatura così semplice e rozza racchiudeva un nucleo primordiale di genialità, una forma primitiva di quell’ intuitività che ha portato l’ Uomo ad evolversi e a dar corpo ad invenzioni e scoperte favolose, anche se apparentemente semplicissime come l’ acqua corrente e il latte pastorizzato, ma anche la musica, la Poesia e il campionato di calcio di serie A! Ma il modo di esprimere l’ amore con la “a” maiuscola… Per secoli, anzi per millenni storici, filosofi, artisti hanno dato e hanno cercato le più svariate definizioni e spiegazioni a questa “cosa” (io di fronte alla loro arte e sapienza non mi azzardo a chiamarlo in nessun altro modo!), oggi anche scienze e neuroscienze hanno profuso sforzi per cercarne le cause e poterlo classificare in qualche modo, così come si fa con una patologia o una qualche specie di aracnide; e un numero ancor più vasto di persone si alambicca da sempre il cervello, ogni giorno, per riuscire ad “arrivare là dove nessun uomo è mai arrivato”: immortalarlo per la propria amata (o il proprio amato, o tutti e due…), renderlo tangibile con qualche gesto e/o oggetto che ricordino per sempre quanto quell’ amore è stato immenso, immortale, se possibile più immenso e immortale di tutti gli altri.

Qualcuno sceglierà i diamanti, altri le poesie, vi sarà anche chi piange e strepiterà e tirerà sassi addosso ai vetri della camera di lei, alcune donne, se deluse e arrabbiate, ci righeranno la macchina con le chiavi di casa che non potranno più usare; addirittura il grido e il canto disperato di cert’ altri si tramuterà in un gesto estremo, se non avrà prima avuto successo l’ aver noleggiato un dirigibile che avrà portato in cielo una scritta a dire “ti amerò per sempre amor”, eccetera eccetera. A Santino, detto “u pranchiu”, è bastato molto meno: un gesto-non gesto, un simbolo silenzioso ma più discreto di un tatuaggio. Il suo Amore è racchiuso tutto nella sua mano a forma di chela, per il quale fu sufficiente un pugno contro un muro di nascosto e un’ ingessatura sbagliata. Già solo per questo, per aver raggiunto l’ obiettivo di eternare il suo Amore come quasi nessun uomo è riuscito a fare, lo ritengo qualcosa di simile ad un genio. Al che, dopo tutto questo fluttuare nelle mie considerazioni istintive, non resisto dal pormi oggi una domanda. Fu davvero uno sbaglio, e non v’è dubbio in proposito, che quel dottor S. sbagliò l’ingessatura. Ma lui, “u pranchiu”… Possibile che non sapesse come tutti ciò a cui stava per andare incontro? E, dunque, fu un vero sbaglio? Fu vera gloria? Mi piace pensare che sia andata così. E se anche a te piace pensarlo, allora sì: sarà vera gloria.

NOTA DELL’ AUTORE Tutti i personaggi di questa storia sono reali e il fatto è accaduto veramente, o almeno così me l’hanno raccontato. Ho cercato di essere quasi fedele alla realtà, tranne ovviamente i nomi, per i quali… Vediamo… Ah, sì: ogni riferimento è puramente casuale.

Dario Stefano Villasanta



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