Mi è capitato tra le mani di recente un vecchio articolo apparso nell’inserto culturale del Sole 24 ore (18.08.2013) che criticava in maniera serrata l’esperienza del “grande balzo in avanti” della Cina maoista e quindi, implicitamente, tutta quella fase storica culminata con la Rivoluzione Culturale e con il suo inevitabile rovesciamento nel “nuovo corso” di Deng Xiao Ping. All’inizio dell’articolo l’autore, Alberto Mingardi, cita Amartya Sen il quale
<<…rilevò che non è la scarsa produzione alimentare a determinare una carestia. Piuttosto, per comprenderne le cause bisogna guardare all’effettivo accesso a beni e servizi (cibo compreso) da parte del cittadino o suddito di una certa parte del mondo, sulla base dello stato giuridico e delle opportunità che gli sono riconosciuti dal sistema politico>>.
Durante il Grande Balzo in Avanti (1958-1962), nella Cina maoista, si sarebbe realizzato uno dei più disastrosi tentativi di evitare una carestia pianificando addirittura il tipo di alimentazione della popolazione. Nel suo importante lavoro storico-teorico Poverty and Famines: An Essay on Entitlement and Deprivation (1981) Sen ha sviluppato la sua tesi affrontando casi studio in Etiopia e nel Sahel, la grande carestia del Bengala e quella del ’74 in Bangladesh. E Mingardi riportando le riflessioni di Sen rileva che più
<<che la mera capacità di produrre pane, contano le variabili politiche. È una lezione antica, che dovrebbe esserci presente da quando sir Robert Peel abolì le Corn Laws, per reagire alla terribile “potato blight” irlandese: i dazi infatti rendevano proibitivo l’acquisto di quelle derrate straniere delle quali l’Irlanda aveva disperato bisogno, dopo che la peronospora distrusse un terzo del raccolto di patate del 1845>>.
A questo punto l’articolista introduce l’opera del giornalista cinese Yang Jisheng che nel suo libro Tombstone: The Great Chinese Famine, 1958-1962 (2008) scrive, facendo riferimento alla tragica fine del padre,
<<La mia tristezza per la morte di mio padre non incrinò la mia fiducia nel Partito comunista cinese. Come me, tanti altri giovani che avevano entusiasticamente partecipato al Grande Balzo in Avanti conoscevano la fame, assieme alle loro famiglie, ma nessuno si lamentava. Erano ispirati dal comunismo, e molti di loro sarebbero stati lieti di sacrificare la vita per il grande ideale>>.
Non è da sottovalutare il riferimento al pathos rivoluzionario di quegli anni: seppure in condizioni di estrema indigenza e carestia la passione rivoluzionaria continuava a manifestarsi, secondo il giornalista cinese, in una maniera che credo risulti a noi tutti – dopo il crollo delle ideologie di emancipazione e in particolare del comunismo storico novecentesco e del marxismo storico otto-novecentesco alla fine del XX secolo – assolutamente incomprensibile. A questo punto il recensore introduce la critica che Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek ma, aggiungerei io, tutta la scuola neoclassica almeno a partire dalla metà del XX secolo ha sviluppato. Riassumendo il discorso di Mingardi, con alcune specificazioni, possiamo dire che si tratta delle ben note considerazioni per le quali in un’economia di mercato ogni prezzo è frutto di innumerevoli valutazioni individuali e, pertanto, la struttura produttiva rappresenta una sorta di “asta” perpetua, nella quale ogni singola quantità di risorse viene allocata in qualche parte del sistema produttivo. Ciò permette di risolvere nella maniera migliore il problema del”cosa” è opportuno produrre, ma anche del “come” è meglio farlo. Solo in un’economia di mercato, però, il meccanismo dei prezzi, consentendo a persone e imprese di cooperare, rende possibile l’ottimizzazione dell’efficienza e dell’economicità del sistema. I prezzi, infatti, riescono a dare dei “segnali”, che sono in grado di orientare al meglio il sistema economico, soltanto all’interno di una formazione sociale caratterizzata dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e dalla libertà di scambio, ovverosia in una società capitalistica. Yang Jisheng riprende da Hayek, però, anche l’idea che la pianificazione dell’economia comporta una pesante ricaduta di tipo politico, con una selezione delle élite all’incontrario nella quale viene permesso di emergere “ai peggiori”. Ne derivava, così, un moltiplicarsi dei comportamenti
<<opportunisti delle leadership locali, le quali finivano per trasmettere informazioni errate al centro, proprio perché sviate da un sistema di incentivi che rendeva quello che dovrebbe essere l’obiettivo della produzione di cibo – cioè, il soddisfacimento di una domanda – del tutto irrilevante>>.
Scriveva poi lo stesso Yang Jisheng: «In un sistema politico come quello cinese, chi sta sotto imita chi sta sopra e le lotte politiche ai più alti livelli vengono replicate ai livelli inferiori in una forma ampliata e persino più spietata». Nella parte finale dell’articolo, infine, l’autore descrive in questa maniera questo “collettivismo pienamente realizzato”:
<<le campagne vennero riorganizzate in comuni popolari dove la proprietà privata risultò integralmente abolita e tutta la produzione andava consegnata all’autorità centrale e persino le cucine di casa vennero sostituite con mense popolari che avrebbero provveduto ai pasti dei contadini e le loro famiglie; gli agricoltori, inoltre, dovevano produrre senza compensazione alcuna, e all’autorità centrale veniva lasciato di smistare le risorse prodotte, la rinuncia al sistema dei prezzi fu, quindi, totale>>.
La considerazione finale, secondo l’impostazione dell’articolo, è lapidaria e tranchant: in un sistema di pianificazione centralizzata con una accentuazione comunitaria, che abolisce del tutto un qualsiasi controllo della congruità delle ragioni di scambio, la politica fagocita la produzione e indipendentemente dall’indole e dalla propensione dei singoli individui si ingenera un sistema di corruzione che crea dissesti negli approvvigionamenti e nelle allocazioni delle risorse acuendo le crisi. La Rivoluzione Culturale cinese si fondava, in realtà sulla convinzione “fideistica” che l’evoluzione del sistema dei rapporti sociali, a partire da quelli di produzione e di scambio, fosse ormai stata stabilita in conformità a leggi storiche definitive ed immodificabili. Ne conseguiva che l’unico ostacolo per questa trionfale avanzata verso il “comunismo compiuto” doveva sorgere inevitabilmente all’interno del partito-stato; di qui tutte le feroci lotte tra fazioni in nome della necessità di distruggere gli “elementi borghesi” e i “funzionari del capitale” all’interno degli apparati e degli organi dirigenti delle istituzioni dello “stato socialista”. La credenza nel dogma che enunciava la “ferrea legge” dell’inevitabilità della socializzazione delle forze produttive e dell’”armonizzazione” dell’organismo sociale sotto la guida di capi “necessariamente” infallibili rimaneva il pilastro su cui si fondava la fiducia nell’avvento del “mondo nuovo”. E perfino Deng, almeno nella prima fase del suo rinnovamento economico e sociale, si guardò bene di incrinare questa fede.
Mauro Tozzato 11.06.2015