“I’ve been rich and I’ve been poor. Believe me, rich is better.”
Ecco quello che dice Debby Marsh, la pupa del gangster. Questo per spazzare via pietosi moralismi. Il volto glielo dà Gloria Grahame, la dea, con la sua voce cadenzata, le sue movenze, i balletti mentre prepara i cocktail. Avrebbe dovuto essere Marilyn Monroe, ma la FOX, sempre lei, sessant’anni fa come adesso, pretese troppi soldi. E Fritz Lang, regista, era un europeo che, ricordo, il cinema era andato a insegnarlo a Hollywood.
E così, Gloria, vestito bianco e ingresso da diva, sdraiata sul divano che risponde al telefono, funziona altrettanto bene, associata a Glenn Ford.
Ford non è Bogart, faccia pulita, il ruolo del poliziotto integerrimo, cappotto e cappello dal taglio classico, gli è stato cucito addosso; ma sapeva fare a botte. E certe scene, all’epoca, spaccavano.
Il Grande Caldo (The Big Heat) è una storia di gangster e vendetta, violenta, ma che non mostra una sola goccia di sangue.
Un po’ per moralismo, perché erano i fifties e il sangue, sul silver screen, avrebbe avuto soltanto una tonalità di grigio, un po’ perché Lang dietro la cinepresa ci stava comodo, disponendo di una maestria, e di conseguenza di una scioltezza, che gli avrebbero permesso di far sembrare esaltante e perfetta qualunque scena avesse voluto riprendere.
Una al volo, tra le tante di questo capolavoro noir, quella in cui Dave Bannion (Ford) va a fare una visita al boss dell’immaginaria città di Kenport. Nella villa si sta svolgendo la festa di compleanno della figlia del criminale, la telecamera si muove, mostra dei ragazzi (come potevano esserlo all’epoca, in giacca e cravatta e vestiti lunghi) che ballano, i set cambiano, ci si sposta nello studio del boss, una scazzottata realistica con lo sgherro di turno che vuole accompagnare fuori il poliziotto e, dopo, viene aperta una porta: al di là, sempre gli stessi ragazzi, sempre impegnati a ballare: la scena è durata dieci minuti circa. Ecco, questa sì che è una costruzione scenica, che nega la finzione e distrugge l’incredulità.
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Un mondo di grigi, un colore suadente in ogni sfumatura, ma sono pur sempre i beneamati anni cinquanta. Bannion ha una mogliettina e una figlia piccola. La moglie è Jocelyn Brando, cognome che conoscete tutti, infatti è la sorella maggiore di Marlon; la vedete dietro ai fornelli, angelo del focolare della famiglia nucleare, grembiule, arrosto che si sta cuocendo a puntino, alle spalle un frigorifero enorme, gli elettrodomestici laccati con cromature lucide, vanto del modernismo e segno di inequivocabile benessere economico: gli Stati Uniti avevano vinto la Guerra. Normalità soffocante, dietro sorrisi veri, e di facciata; la società era costruita su quel nucleo, la famiglia.
L’America la Guerra l’aveva combattuta altrove, ponendovi fine con due lampi atomici, eppure, in casa propria, combatteva ancora, contro la malavita organizzata, capace di caricare esplosivi nelle automobili e di uccidere poliziotti che si impicciano di affari che non li riguardano. Solo che, al posto di Bannion, in quella macchina c’è la moglie.
Vince Stone è un criminale che detiene una fetta di potere sotto Lagana, il Capo dei Capi, quello della villa con la festa da ballo. È un tipo violento, che non disdegna di alzare le mani sulle donne.
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La violenza ne Il Grande Caldo è sia mostrata che raccontata, evitando facili polemiche, e colpisce sempre. Si mostrano pistole che faranno fuoco di lì a poco, Fucili di Checov radicalizzati, si descrive il brutale omicidio di una donna, strangolata e seviziata con bruciature di sigaretta; un bollitore da caffè, colmo di liquido bollente, se ne sta sullo sfondo, dimenticato (ma mostrato), fino a quando qualcuno non decide di farne uso.
Ogni dettaglio della scenografia è utilizzato e partecipa della storia di questo film. Un tipo di precisione maniacale, tanto bella a vedersi, a cui Lang ci ha abituato. Impossibile muovere una critica ai suoi film. Qui siamo in presenza di una personalità troppo enorme per metterla in discussione. Mestierante, carpentiere e genio del cinema coincidono e atterriscono, perché ci si trova di fronte un’apparente facilità, direi quasi elementare, di impianto narrativo che, analizzato punto per punto, suggerisce al contrario una storia complicata, con un numero elevato di sottotrame, indizi, che vanno a intrecciarsi nel tipico gioco a incastro del noir, dove si parte dal crimine compiuto e si ricostruisce la vicenda tassello dopo tassello, in un crescendo corale di tensione e violenza, fino alla catarsi finale. Questo è cinema. E lo è adesso, a sessanta anni circa di distanza. Il tempo non significa nulla.
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Gloria Grahame ha costruito la sua carriera con ruoli border line, sul filo tra luce e ombra. Ha interpretato donne ciniche, disilluse e spregiudicate. La povertà fa schifo, perché non dirlo?
L’amore? Quello è buono solo per i romanzi rosa, magari pubblicati a puntate su qualche rivista. Tra la povertà e un boss del crimine, lei, Debby, ha scelto il crimine, guardando i crimini di cui si macchia Vince Stone, ma non vedendoli. Non appena la debolezza del desiderio di una vita normale, da trascorrere magari accanto a un uomo virtuoso qual è Bannion, si affacciano all’orizzonte, subito la realtà in cui lei vive chiede il tornaconto. Luce e ombra sullo stesso volto di Gloria. Creatura innocente, forse, ma sporca di sangue. In fondo, lei, è una prostituta, veste abiti costosi, pellicce, gioielli, ed è una schiava, marchiata come tutte le schiave.
Musica prepotente e fastidiosa, tipica del periodo. Rifatto oggi, magari con la maestria di Refn, sarebbe un film rosso e nero. The Big Heat al rosso sostituisce il bianco, come il sogno di un paradiso perduto.
Il silver screen e i suoi colori levigati rendevano l’irrealtà del cinema ancor più pesante. Chi aveva il privilegio di esibirsi davanti a una cinepresa non poteva essere un comune mortale, ma un divo. E come tutte le divinità, la vita privata di queste era specchio di delusioni cocenti.
Golden Age allo stato puro, nelle mani di una leggenda, un tale che, una trentina di anni prima, aveva diretto Metropolis. Imperdibile.
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