Lo scorso lunedì, 11 gennaio, ha fatto ritorno, nelle sale aderenti all’iniziativa, Il grande dittatore (The Great Dictator, 1940) di Charlie Chaplin, nella nuova versione restaurata da Criterion Collection in collaborazione con la Cineteca di Bologna, per il progetto Il cinema ritrovato. Al cinema, promosso insieme a Circuito Cinema per riportare in sala i grandi classici restaurati. Contemporaneamente all’uscita in sala la nuova versione sarà disponibile in dvd per le Edizioni Cineteca di Bologna, accompagnato da oltre due ore di rarità e approfondimenti, da una photogallery dei bozzetti inediti di J. Russell Spencer e da un prezioso booklet curato da Cecilia Cenciarelli, in cui trovano posto saggi sui dittatori e il cinema (Enno Patalas), sulle vicende distributive del film in Italia (Maurizio Graziosi), sul contesto storico e la genesi artistica (Cecilia Cenciarelli), sulle scenografie e i citati bozzetti inediti (Pietro Bellasi e David Robinson), cui vanno ad aggiungersi un’antologia critica e una cronologia che intreccia le tappe della produzione e distribuzione del film con i principali eventi storici e politici. Di seguito, il mio commento al film.
*****************
Charlie Chaplin
The Great Dictator è il primo film completamente sonoro di Charlie Chaplin, l’ultimo in cui appare il tramp (anche se la sua morte defintiva avrà luogo sulle scene, in Limelight, 1952) e la sua efficace pantomima sostitutiva del linguaggio parlato, coreografata dall’autore all’interno di una essenziale sintassi cinematografica (minimi movimenti di macchina, predilezione per le inquadrature frontali e i campi larghi): la sua anima candida, poetica e anarchica, già sopraffatta dai macchinari di Modern Times (1936), non può trovare posto, nonostante il suo estremo opporsi, qui anche con la forza delle parole, in un mondo ormai dominato dall’odio reciproco e dalla ricerca di un progresso fine a sé stesso, senza alcuna vera evoluzione. Opera estremamente coraggiosa, di cui Chaplin scrisse soggetto e sceneggiatura, The Great Dictator offre un’attenta pianificazione delle sequenze, con poco spazio all’improvvisazione rispetto alle opere precedenti. Girato alle soglie del secondo conflitto ed uscito poco prima del suo ulteriore tragico sviluppo, esprime in chiave satirica l’avversione specifica per il totalitarismo di Hitler e di Mussolini, ampiamente parodiati sotto nomi diversi, così come quelli dei paesi coinvolti nella guerra, assumendo la valenza universale di un forte monito, sincero e accorato, per ogni forma dittatoriale oltre che una profonda metafora sulla doppiezza dell’animo umano, contraddittoriamente sospeso tra male e bene, visto che i due protagonisti del film, il barbiere ebreo e Hynkel, hanno lo stesso aspetto fisico, interpretati entrambi da Chaplin.
(Cineteca di Bologna)
Rimarchevole anche il simbolismo offerto dalla perdita della memoria del barbiere ebreo arruolato, nel corso della I guerra mondiale (l’iter narrativo del film prende piede nel 1918, richiamando Shoulder Arms- Charlot soldato), nell’esercito della Toimania e addetto al funzionamento della Grande Berta, dopo il compimento di un’azione eroica, aver reso salva la vita ad un ufficiale tedesco, Schultz (Reginald Gardiner). Trascorsi vent’anni in un ospedale militare, una volta tornato al ghetto e riaperto bottega, l’omino fatica a comprendere i tragici avvenimenti che hanno sconvolto il mondo intero, l’ascesa al potere di Adenoid Hynkel, il suo dominio assolutista e il culto della razza ariana, pur cercando un’alleanza con un banchiere ebreo perché gli finanzi la campagna d’invasione mondiale, a partire dalla vicina Ostria. Ma il rifiuto di questi e il sostegno offerto al riguardo da un altro dittatore, Bonito Napaloni in visita dalla Bacteria, fanno precipitare gli eventi, sino a quando il barbiere, che ha trovato nel frattempo l’amore di Hannah (Paulette Godard) ed è fuggito dal campo di concentramento dove era stato fatto prigioniero insieme al suo amico ufficiale tedesco ribellatosi ad Hynkel, si troverà inaspettatamente nei panni di quest’ultimo…
The Great Dictator offre una costruzione impeccabile, nella mescolanza del tutto particolare e suggestiva fra farsa e tragedia, mettendo in campo un parallelismo tra le folli gesta di Hynkel e la vita, tra tante sofferenze ed ingiustizie, nel ghetto ebraico. Il vanesio dittatore nel suo urlato linguaggio, un concitato grammelot che mescola inglese, spagnolo e tedesco, è messo alla berlina, così come il “collega” italiano (uno straordinario, per mimica e presenza scenica, Jack Oakie) evidenziando in primo luogo l’illusorietà manifesta di un delirio d’onnipotenza che non fa i conti con l’impotenza a gestire persone e situazioni (la celebre sequenza della danza di Hynkel col mappamondo sulle note del Lohengrin di Wagner, che, fatalmente, finirà col scoppiargli in mano), perso com’è nell’ affermare una sterile superiorità in nome di un consenso espresso nei confronti della propria personalità ancor prima che universale (la sequenza al’interno del salone da barba nel palazzo di Hynkel, dove i due dittatori fanno a gara con le poltrone a chi arriva più in alto). Esemplare poi il naturale inserimento di molte gag mute (quella iniziale del barbiere ebreo alle prese con un proiettile gigante, la visuale di un volo a testa in giù offerto in duplice prospettiva) o sotto forma di numero musicale (oltre a quella citata del mappamondo, vi è una rasatura particolarmente movimentata sul sottofondo della Danza ungherese di Brahms), omaggio dell’autore ai suoi precedenti film muti, consapevole che da questa opera in poi il discorso sociale avrebbe preso il definitivo sopravvento sulla poetica del vagabondo mai del tutto integrato nel sistema, libero di errare per il pianeta alla ricerca, da solo o in compagnia, di un tramonto cui andare incontro.Paulette Godard
Particolarmente felice l’intuizione del discorso finale all’umanità, un messaggio ancora valido, da rivolgere oggi ai tanti “sepolcri imbiancati” che siedono su alti scranni, tiranneggiando non più, o non solo, materialmente, magari veicolando il pensiero unico con fare subdolo e mellifluo; la forza delle parole espresse da Chaplin, ora uomo fra gli uomini senza maschera alcuna, consiste nell’evitare di contrapporre alla nefasta propaganda del dittatore una qualche nuova ideologia, preferendo piuttosto, alternando utopia anarchica e concreta speranza, invitare tutti gli esseri umani a prendere le redini del proprio destino, per dar vita ad una democrazia che possa avere le sue basi fondanti sulla tolleranza e sul buon senso. Una sorta di “nuovo umanesimo” dove parole quali verità, libertà e giustizia, così come i progressi scientifici, non siano appannaggio totalizzante del potere, in ogni sua esternazione, bensì trovino la loro forza trainante all’interno di un ordine sociale dove possa esprimersi liberamente l’essenza più intima dell’uomo a livello individuale e collettivo, facendo leva sui concetti di etica e moralità. Risalta con forza l’assurdità della guerra e le sue devastanti conseguenze su vincitori e vinti, che annienta quell’amore verso il prossimo che dovrebbe essere la spinta propulsiva di ogni azione umana, fiducioso anelito condiviso dal piccolo uomo con la donna amata, Hannah (Paulette Godard), nella consapevolezza, spesso dimenticata, chiusi come siamo nel nostro individualismo materiale ed ideologico, di essere tutti sotto lo stesso cielo e di compiere, volenti o nolenti, identico percorso, ognuno camminando sulle orme dell’altro.