Meglio mettere subito in chiaro che nel Grande Gatsby di Baz Luhrmann non si respira lo stesso spirito del breve romanzo di Fitzgerald, il quid responsabile del suo fascino: resta meticolosamente fedele alla sua trama, anche più del Grande Gatsby del 1972, diretto da Jack Clayton e sceneggiato da Francis Ford Coppola. La fedeltà, però, non è una dote in sé: anche Tom Buchanan è fedele a Daisy, all’apparenza…
Il quid di cui sopra, la causa vera della bellezza del romanzo che la trasposizione filmica non riesce a valorizzare, è la triste e vuota spensieratezza di quegli uomini ricchi e annoiati: la si può raccontare con grande efficacia a parole, se si ha il talento di Fitzgerald; si può indugiare in descrizioni di stati d’animo come di vestiti o comportamenti, tutti funzionali allo scopo di dipingere un preciso e specifico ambiente. Fare la stessa cosa al cinema, con la voce narrante, è molto più difficile e può risultare ridondante: proprio quello che succede col Gatsby di Luhrmann, che pure fa dell’eccesso e dello sfarzo la sua chiave di lettura, con frotte di scatenati che popolano le feste di Jay Gatsby, folle di automobili per le strade di New York, folle di lavoratori a Wall Strett, ogni genere di ricchezza nelle mura del Grande Castello. Ma se il narratore ci racconta qualcosa e subito dopo la vediamo sullo schermo, allora il piacere della visione non è così appagante perchè smorzato dalla ripetizione. Ridondante, dunque, ma comunque apprezzabile in alcune scelte coraggiose, e forse riuscite, come la contaminazione tra età del jazz e musica hip hop; di certo gradevolissime le interpretazioni degli attori e soprattutto di Leonardo Di Caprio, tanto diverso da Robert Redford e tanto affascinante in un ruolo che sa dominare. Qualche dubbio leggittimo si nutre verso il 3D, che non sembra giustificato se non in qualche giochetto grafico, ma che disturba per 120 minuti di sagome bidimensionali su piani diversi. O è forse una metafora dell’intera vicenda?
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