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Ditegli perché i nostri padri hanno mentito
Non mi incanta il Rudyard Kipling poeta - assai meno in ogni caso del Kipling narratore del Libro della giungla, di Capitani coraggiosi o di Puck il folletto - non mi incanta anche se i suoi versi sono una finestra spalancata sulla sua vita e su un mondo, quello dell'Impero britannico della regina Vittoria, che di fascino ne ha da vendere.
E sia chiaro, non che fosse un mondo giusto. Però come non perdersi in quelle atmosfere di riti coloniali e di tinte esotiche? Piantagioni e fumerie d'oppio, ricevimenti dal governatore e infamie coloniali. La voglia di dominare il mondo e quella di nascondersi al mondo. Ecco, proprio questa è la poesia di Kipling, che di volta in volta si assume la missione dell'impero - il deprecabile fardello dell'uomo bianco - ma cerca anche una via di fuga; e si fa parola di soldato e fuga di sognatore.
Non mi incanta, la sua poesia. Ma quante suggestioni che riesce a evocare, quello che già ai tempi era catalogato come un buon cattivo poeta.
In ogni caso c'è una parte dei suoi versi che non hanno niente a che vedere con l'India o altre terre dell'Estremo Oriente. Li ho scoperti solo ora, in un'antologia che gira intorno a If, la sua poesia più famosa - e che ancora una volta non mi incanta. Sono i versi che ha composto come lapidi immaginarie - ma poi non tanto - per i caduti della prima guerra mondiale. Una sorta di Spoon River europea, non per un cimitero di una piccola cittadina americana, ma per i morti ammazzati della grande ecatombe europea.
Niente retorica, niente fascino esotico. Ma forse le parole di un padre che in guerra ha perso suo figlio. E che da allora lavorò constantemente non per inventarsi altri capolavori, ma per alimentare la memoria. Dei tanti, degli innumerevoli come suo figlio.
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