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Il Grande Massacro

Creato il 05 novembre 2015 da Ambrogio Ponzi @lucecolore
Il Grande Massacro Il Grande Massacro In questi giorni, come  sempre, dai miei più lontani ricordi di bambino, risento ancora parlare e straparlare di commemorazioni della Grande Guerra, specie quest'anno, in cui ricorre il centenario dell'insensata entrata in guerra dell'Italia, contro due super-potenze militari di allora, come l'Impero Austro-Ungarico e quello Germanico. 
La decisione fu presa dal Re-Guerriero Sciaboletta e dal suo Primo Ministro, contro il volere, se non all'insaputa, del Parlamento, dietro le spinte di esaltati nazionalisti, con in testa quel pazzo furioso del poeta-vate di Pescara. Eravamo un esercito di straccioni, male armati, comandati da generali decrepiti ed obsoleti, che dimostravano il loro eroismo nelle retrovie, a mangiare, bere, fumare sigari e a sollazzarsi con donnine dai facili costumi. Esemplare, paradigmatico, in questo settore, il macellaio Cadorna, che, insieme ai suoi colleghi dai mostacci arricciati con il sego, era rimasto alle strategie belliche dei tempi napoleonici.  Centinaia di migliaia di poveracci, specie dal Sud, operai, contadini, pescatori, montanari, tutti o quasi analfabeti, erano strappati alle loro terre e alle loro case, e mandati al macello, a ondate, da vecchie  canaglie, coperte di stellette, nastrini, medaglie, con tanto di galloni, guadagnati sulle carneficine di masse di esseri umani, indifesi, sottoposti alla loro maligna mercé, fatti a pezzi dalla mitraglia, dai cannoni, carbonizzati dai lanciafiamme. 

Il Grande Massacro

Cattive compagnie

Ma i generaloni, quacchi quacchi nelle lontane retrovie, si affacciavano, ogni tanto,  a finestre e balconi, ad urlare: “Avuanti, Sciavuoia!”, da brave teste di legno piemontesi, cresciuti all'ombra dei miti e delle leggende di un Risorgimento mai vissuto e male orecchiato. Io poi non sopporto tutte queste sciocche rimembranze e celebrazioni, architettate, di solito, dalle Associazioni dei combattenti e reduci, a base di cortei di vecchi alpini, di ossari, di deposizione di corone, di Militi Ignoti, di monumenti ai caduti, tra trombe, fanfare, rulli di tamburi, autorità con il capino basso, il visino contrito, la scucchia alle labbra, le manine sulle pudenda. Intorno, i soliti militari delle varie armi, tronfi ed impettiti, stracarichi, pure loro, come d'uopo, di chincaglieria e di nastrine. Li chiamano eroi, quei poveri ragazzi, fatti a pezzi, in nome di non si sa bene chi e che cosa; ma quali eroi? Mandati a finire la loro gioventù nella melma, nel putridume, sui massi, sulle nevi ed i ghiacci, eterni e mortiferi. Ed il bello fu che una guerra offensiva si tramutò immediatamente in combattimento difensivo, estenuante; non vincemmo mai una sola battaglia importante, noi italiani. E i miseri fanti che fuggirono a Caporetto, per colpa di Capi di Stato Maggiore incompetenti, furono decimati dai generaloni, dopo aver subito l'ignominia di essere tacciati come vigliacchi e disertori. Solo nelle ultime settimane di guerra, quando ormai le truppe austriache erano ridotte allo sfacelo, riuscimmo, ma sempre con fatica, a ricacciarle entro i patrii confini. Ma, subito dopo, in occasione della pace, da poveri miserandi  vendicativi, in un rigurgito di infantilismo deprecabile, annettemmo anche il cosiddetto Alto-Adige, meglio denominato, dagli indigeni, come Sud-Tirol.  Ancor oggi, dopo un secolo, loro tengono a  sottolineare che la loro terra Ist nicht Italien.  Che gloriosa impresa fu messa in atto, in quel famoso 24 maggio della “Canzone del Piave”! Franco Bifani

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