Il Grande Sonno (1946)

Creato il 10 febbraio 2012 da Elgraeco @HellGraeco

Perdonate l’azzardo, ma inizio da dove finisce un certo Red: spero.
Spero di riuscire a serbare intatta la memoria di questo film, soprattutto nei minuti che trascorreranno per scrivere quest’articolo. Spero di non dimenticare i giochi d’ombre e la musica e la perfezione di una trama intricatissima, compiuta a incastro; temi sordidi, sporchi, rivoluzionari, cose delle quali la Legge vietava di parlare. Pornografia, ricatti, droga, promiscuità e violenza. Il noir, quello dei vicoli bui e piovosi, nebbiosi, dell’apparente innocenza dietro cui si cela l’abisso, della morale spiccia, dei sentimenti forti che travalicano cose considerate sacre, quella stessa legge, tanto per cominciare. E la giustizia, ché la coscienza la si mette a posto in altro modo, come fa più comodo e appare corretto.
Il noir che nel ’46, a differenza dei film sulla guerra, è considerato immortale e appetibile dal punto di vista commerciale. Non siamo ancora negli anni Cinquanta. Ma il mondo ha già visto i suoi lampi nucleari, e centinaia di migliaia di voci che si sono spente urlando. È bene ricordarlo, per capire.
Lo spettacolo deve andare avanti, dopotutto si è a Hollywood, e gli States si avviano a dominare i cinquant’anni successivi. A loro la leadership mondiale; tocca esportare miti, perché l’America sia degnamente rappresentata. C’era una leggenda vivente, già allora, che rispondeva al nome di Humphrey Bogart. Non era la voce, il suo punto di forza, per quanto caratteristica, ma faceva bene alla visione d’insieme: impermeabile indosso, bavero alzato, cappello a tesa larga, faccia di quello sempre pronto a fare a pugni. E lo faceva, menava le mani. E il pubblico godeva, per questo. Insieme a lui Lauren Bacall, a lei bastava essere. I critici dell’epoca, come di tutte le epoche, sostenevano che Lauren fosse bella sì, ma non sapesse recitare. Quando riesci ad accendere una sigaretta come fa in To Have and Have Not, tutto il resto passa in secondo piano. Sostenuta dalla perfezione estetica, dalla bravura (perché essa c’è, c’era) e dalla sua husky voice. Quella voce roca, bassa, suadente, con la quale pronunciava battute studiate per far diventare le ginocchia molli.
La nostalgia dell’impossibile, di un silver screen e di un genere, il noir, ch’io ho potuto conoscere solo in ritardo di sessant’anni. Gli inconvenienti e insieme i piaceri dello scorrere del tempo. Lo amo, il noir.
Disciplina e focalizzazione sulla storia. Temi brutali, finale che lo è ancora di più. Non un secondo delle circa due ore di durata, concesso alle deviazioni artistiche, quel che oggi perdoniamo ai registi definendolo, quasi a giustificazione, stile, o personalità. La storia, l’azione, gli attori. Li si deve amare subito, dalla prima inquadratura. Si deve soffrire insieme. Cinema.

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Bogey è Philip Marlowe, detective privato chiamato a indagare dal Generale Sternwood (Charles Waldron) su una sporca storia di debiti e ricatti che coinvolge sua figlia minore, Carmen (Martha Vickers), ad opera di un rivenditore di libri rari, Arthur Geiger. Lauren Bacall è Vivian, altra figlia del Generale, costei sospetta invece che il reale motivo per cui il padre abbia assoldato l’investigatore sia indagare sulla scomparsa di un suo caro amico, Sean Regan, di cui si sono perse le tracce da circa un mese.
Questa l’introduzione alla complicata vicenda de Il Grande Sonno, diretto da Howard Hawks, tratto dall’omonimo romanzo di Raymond Chandler, del 1939.
Quello di Hawks è un nome poco noto, non altisonante, come richiede lo Star System, e ricordato solo dagli appassionati e intenditori di Cinema. Questo anche a causa della severità con cui tagliò la propria personalità dal film dedicandosi solo alla storia, fin dalle inquadrature. Eliminò qualsiasi movimento superfluo delle cineprese. Non una scena una che esuli dal contesto, spesso montate con stacchi brutali. Il risultato è una focalizzazione sistematica, e ritmica al tempo stesso, che ha del prodigioso. Il film non conosce pause e scorre rapido, nonostante la complessità e le infinite variabili contenute dalla trama che, ricordiamo, si ottenne fondendo ben due novelle dello stesso Chandler. Storia che fu percepita come labirintica, oltre che trattante temi scabrosi, fin dall’esordio in sala. C’è una cosa, però, che tutti quanti hanno riconosciuto fin dall’inizio: non importa. Poiché il grado di immedesimazione che la regia consente, e il lavoro degli attori supplisce alla difficoltà con cui si fa seguire. Il film si lascia guardare, sentire, assaporare. Si fa godere, insomma. Dal punto di vista di Hawks, un riconoscimento al suo eccellente operato.

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Ma, a ben vedere, e qui sta il segreto che solo una disciplina e un controllo totale della materia trattata riescono a dare, Hawks lascia la sua impronta pur avendo sacrificato le proprie velleità. Forse è un piano ben congegnato, forse è proprio questo, il suo stile, ed egli ce l’ha mostrato nella sua essenza, priva di fronzoli. Assistiamo a spettacolari inquadrature di ombre, quella di Bogart e della Bacall che si accendono una sigaretta, ombre di assassini che sovrastano vittime, a set immensi popolati da decine di comparse, secondo quelle riprese corali così difficili e così preziose, già a partire dalla messa a fuoco, senza considerare lo sforzo finanziario e la responsabilità che da tali ambiziose scene scaturiva. Mi riferisco in particolare a quella del Casino. Il set è immenso, diviso in tre ambienti: la sala d’ingresso, con Bogart che lascia l’impermeabile all’attendente, e due porte aperte, su altrettanti saloni; il primo arredato con tavoli occupati da avventori e un bancone di un bar, pieno di clienti, cameriere che girano per raccogliere le ordinazioni e persone che bevono e chiacchierano: la seconda con uno scorcio su comodi divanetti e gente che si intrattiene ascoltando motivi suonati al pianoforte e cantati da Lauren Bacall. E tutto questo, forse una sessantina e più di attori che si muovono, ridono, fumano, “frequentano il locale”, si coglie con una sola inquadratura. Questa è maestria.
Poco altro da aggiungere, se non accennare ai temi scomodi trattati dalla trama. Una serie di ricatti per debiti di gioco, attività alla quale l’angelo Vivian si concede; ella, come tutte le donne del noir, è dotata di personalità enigmatica quanto carismatica, fascino incarnato, aspetto innocente e altero, che cela una doppia vita di vizio e squallore, segreti sporchi, problemi che, nell’arco della proiezione, dovranno essere risolti, in un modo o nell’altro.

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La pornografia è il mercato nero col quale il signor Geiger intrattiene l’aristocrazia viziosa hollywoodiana, in un realismo crudo, per l’epoca, che non ammetteva smancerie o strizzatine d’occhio a quelle colline, quelle con la scritta, alle quali tutto il cinema doveva la propria esistenza e ricchezza: si sfornavano deità contemporanee da lassù.
Geiger che s’intuisce coltivare una relazione omosessuale con un altro dei protagonisti. Entrambi i temi, pornografia e omosessualità, appartengono all’originale romanzo di Chandler e sono appena sussurrati, perché erano proibiti dalla legge. Siamo in un altro mondo, un’altra realtà. Ma ciò nonostante, percepiamo come netta la rottura che questo film doveva rappresentare. Il cinismo dei protagonisti, l’oscurità che pure si cela dietro il sorriso di Vivian. La morale al tempo stesso rispettata da Marlowe e tenuta in spregio, quando si tratta di compiere delle scelte. La verità sussurrata in quell’auto e inascoltata. Il finale crudo, duro persino oggi, con l’antagonista finito dai suoi stessi alleati, perché “scambiato” per il nemico da freddare.
Martha Vickers avrebbe dovuto comparire nuda. Così il suo personaggio doveva essere in almeno due scene fondamentali, tensive e necessarie per porre il contrasto tra sessualità e morte, su cui è costruito Il Grande Sonno. Ciò non potè essere fatto. La censura era una forza troppo grande e potente. Non che importi, in verità. Proprio del nudo non si avverte la mancanza.
Resta il film, con la sua intatta forza e opera d’ingegno. Col mestiere. Con tutta la decadenza e il fascino dello schermo d’argento.

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Lo dice il Generale, all’inizio del film nella serra, riferendosi alle orchidee, al profumo così intenso da sembrare marcio. A rifletterci, altro non è che il quadro di un intero genere, il noir, sapientemente ritratto in poche battute di testo. Ogni cosa in questo film sembra essere bella, pura e perfetta, per rivelare poi il lato nascosto, terribile.
Cinismo, grandissimi attori, donne magnifiche di una bellezza struggente. Bogart a suo agio nel ruolo che gli è proprio, quello di Bogey, l’uomo cui non poteva essere negato nulla (sì, proprio quello). Le attrici che duettano con lui ne sono stregate, e insieme risaltano, indimenticabili. Poi arriva Lauren, ed è netta la predilezione e l’alchimia. Loro due vivono, sul set, gli altri si limitano a fare la loro parte, a recitare. E intanto li guardano ammirati.
E stiamo parlando di cose che vedo io adesso, nel 2012, e che di sicuro videro anche nel ’46, salvo poi negarlo in inutili critiche. Sempre la stessa storia, a pensarci.
La costante della grandezza è quella di non essere riconosciuta, magari per paura di sbagliare.
E mi sovviene, a tal proposito, l’ultimo scambio di battute tra Bogart e Lauren, opportuno più che mai:
«What’s wrong with you?»
«Nothing you can fix.»

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