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“Il tempo ci sfugge”. La dimensione del passato attraversa tutto “Il Grinta” dei fratelli Coen (stretto remake del classico di Henry Hathaway con John Wayne, ma ancora più fedele al bellissimo romanzo di Charles Portis). E questo lo dichiara non solo la voce narrante di Mattie Ross in apertura... “Avevo solo 14 anni”... ma già l'immagine che apre il film mettendosi lentamente a fuoco, e si rivela essere il corpo del padre ucciso in strada. Se il film di Hathaway cominciava con la partenza del padre di Mattie assieme al suo futuro assassino, nel film dei Coen l'assassinio è già dato; quello che vediamo in Hathaway è il racconto dei fatti, nei fratelli Coen è la loro memoria.
Possiamo assumere a simbolo del film un'immagine che vi ricorre tre volte: lo sguardo ai cadaveri mentre ci si allontana. La prima volta, ai corpi depositati all'uscita dalla capanna, irrigiditi dal gelo notturno; poi c'è il passaggio a cavallo attraverso la piana dello scontro epico, disseminata dei nemici morti; infine il commovente sguardo indietro di Mattie - portata a braccia da Rooster Cogburn, il Grinta (Jeff Bridges) - al cadavere del suo amato cavallo. Uno sguardo in allontanamento, perché tutto il film è uno sguardo indietro, a un'avventura giovanile di sangue e pistole, dolore e crudeltà, che sfuma (con la stessa solennità del “Liberty Valance” fordiano) nell'immagine e nella voce narrante di una donna in treno, con un braccio solo, 25 anni dopo. “Non lo vidi più”.
Ha dunque senso che, quando la protagonista va a cercare (inutilmente) Rooster dopo un quarto di secolo, vada a cercarlo al Wild West Show: lo spettacolo circense che riproduce e sublima il Vecchio West nella dimensione astratta dello spettacolo (pur preso dal romanzo, ritroviamo qui un indizio del senso metacinematografico dei Coen: la storia si trasforma nella messa in scena). Là incontra due vere leggende del West, Cole Younger e Frank James; e il loro dialogo (“Abbiamo vissuto bei momenti insieme” - “Anche noi abbiamo vissuto bei momenti”) è un elogio funebre non solo del Grinta ma del West.
Questa dimensione del passato non è mai tanto chiara, ed elegiaca, quanto nella chiusura del film. Laddove in Hathaway il vecchio John Wayne correva via a cavallo saltando una staccionata, e qui il film arrestava il tempo in un fermo immagine glorioso (c'è sempre tempo per morire), nel remake la conclusione ha luogo presso le tombe vicine di Rooster e del padre; e mentre Mattie Ross si allontana fino a scomparire oltre il crinale della collina, la macchina da presa che inquadra il suo allontanamento rimane immobile fra le tombe in primo piano a destra e sinistra. “Il tempo ci sfugge”. Il tempo scorre e ci uccide; l'unico sguardo autentico si getta dalla distanza del passato e della morte.
Invero “Il Grinta” di Hathaway era ancora più bello - ma questo probabilmente è inevitabile (i classici, sapete...). Il film dei Coen decolla con l'inizio del viaggio; prima i due fratelli sembrano quasi intimiditi rispetto a Hathaway, onde esagerano o nel togliere o nell'aggiungere (la scena dell'impiccagione è notevole, ma nell'altro film era splendida; la gag sulla vecchia compagna di letto di Mattie Ross alla locanda è nettamente inferiore alla nettezza secca di Hathaway; manca nel remake tutto il delizioso gioco nel negozio del cinese). Ma in seguito recuperano con fedeltà l'epos hathawayano, compresa la scena madre dello scontro nella pianura. Se nella loro “Odissea” (“Fratello, dove sei?”) i Coen avevano deliziosamente trasportato il racconto sul piano basso, qui si attestano su una tonificante classicità.
Era inevitabile che i fratelli Coen approdassero al western, un genere del resto che hanno corteggiato in tutto il loro cinema. Il loro tema ricorrente, nei drammi come nelle commedie, è la mancanza di senso del mondo, da cui l'impossibilità di trovare un ubi consistam della comprensione se non nel grande punto fermo della violenza e della morte. E per l'assurdità del mondo, quale migliore allegoria che l'assurdità del West, un mondo irreale, plasmabile, in formazione, una vasta wilderness dove tutto può accadere?
Cosa che ha capito molto bene Jim Jarmusch, naturalmente, col suo archetipico “Dead Man”; e prima di lui Monte Hellman (si pensi a “La sparatoria”), ai tempi della “nuova Hollywood”, ma anche il vecchio Aldrich e il giovane Peckinpah. Per questa strada i Coen reinseriscono nel classicismo del nuovo “Il Grinta” gli umori crudeli e l'assurdità che serpeggiano nel loro cinema. C'è un sublime momento onirico, nel film, quando i due cavalieri, dopo avere staccato l'impiccato dal volto mangiato dai corvi, restano fra gli alberi ad aspettare immobili, come in un incubo - ed ecco che si fa avanti dal nulla l'uomo dalla testa d'orso, che poi si rivela un vecchio medicastro.
“Il Grinta” di Hathaway è (come quello coeniano) un romanzo di formazione; ma il tema intorno al quale si avvolge è la riaffermazione di una giustizia che va mantenuta, a costo di affittare un vecchio U.S. Marshal ubriacone per un pugno di dollari - e se non riesci a trascinare l'assassino alla forca, puoi sempre fare giustizia con la pistola. Questo è l'assioma base della geometria morale del West: la distanza più breve tra due punti è la linea retta di una pallottola.
Nei Coen questo principio sicuramente è presente (ad esso alludono le cupe citazioni bibliche) ma i due fratelli portano in primo piano un altro tema: la ricerca del nuovo padre in Rooster – una ricerca che passa anche per il momento del rifiuto e del dubbio. Lo segnalano molto bene due inquadrature che separate sarebbero anodine ma sono assai significative insieme: la spedizione in treno delle bare, quella del padre all'inizio e quella del Grinta alla fine, sono realizzate con l'identica inquadratura dall'alto in basso. La seconda replica la prima.
E questo ci ricorda che, se la morte e la violenza rappresentano la vera realtà nel mondo dei fratelli Coen, c'è un'eccezione riservata a pochi: una possibile e fragile verità - solo per qualcuno - sta anche nelle tenui “fiammelle” affettive che si accendono lungo la via.
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