Il gruppo multifamiliare rappresenta una metodologia privilegiata per la cura delle gravi psicosi in quanto permette di intervenire sulla ricerca del senso delle cause psicologiche che hanno determinato l’instaurarsi del disturbo e mobilita tutte le risorse e le energie disponibili per un processo trasformativo che vede coinvolti i familiari, gli operatori, i pazienti e tutto l’ambiente e il contesto di vita coinvolto.
E’ stato inventato da Jorge Garcia Badaracco in Argentina il quale iniziò a convocare i familiari alle riunioni che teneva tutti giorni con i pazienti al fine di discutere tutti i problemi che, prevedibilmente, si sarebbero potuto ripresentare, di lì a poco, una volta che il paziente migliorato, durante il ricovero, sarebbe rientrato in famiglia.
Secondo le idee di Badaracco il gruppo è composto dagli operatori, dai pazienti, dai loro genitori e altri loro familiari. Si tratta di instaurare una situazione in cui pazienti e genitori appartenenti a più nuclei familiari e operatori possano partecipare a pieno titolo ad una “conversazione” in cui ognuno può esprimere quello che pensa e può sentire di poter contare su qualcuno che aiuta a ritrovare sé stessi. Il gruppo permette di creare un luogo dove è possibile che delle persone vadano sapendo di poter esprimere quello che provano, perché ci sono persone pronte ad ascoltarle e a condividere con loro i contenuti emotivo-affettivi che proporranno loro, di donare la loro solidarietà. Al suo interno è possibile prendere in considerazione “ la psicosi” vedendo in azione non tanto i meccanismi inconsci che l’hanno generato nel tempo, quanto le interazione che, ripetendosi all’infinito, la mantengono in vita anche in quel momento: le interazioni patologiche e patogene reciproche tra genitori e figli. Sono situazioni nelle quali i figli, considerati in genere solo malati, ma anche i genitori, visti soltanto come sani, sono “abitati dalla presenza degli altri” che non li lasciano essere sé stessi. Il gruppo di nuclei familiari e degli operatori è il contesto più naturale, cioè il meno artificiale, in cui è possibile prendere in considerazione la follia. In esso è possibile rendere visibile e riconoscibile la cosiddetta “Simbiosi patologica” che seguita a vivere, costituita dalla interdipendenza patologica e patogena che si instaura tra genitore e figlio.
Il gruppo di psicoanalisi multifamiliare è un gruppo aperto. I suoi componenti appartengono a generazioni diverse e differenti nuclei familiari: fin dalla prima volta che si partecipa si può intervenire e, soprattutto, si può ascoltare. Badaracco sostiene che la cosa più importante che avviene è che chi vi partecipa può imparare nuovamente ad ascoltare.
Il vero nemico è “narcisismo patologico”. Esso consiste nella tendenza a parlare ed ascoltare solo sé stessi, presente nei genitori e nei figli, che non riescono a vedere l’altro come “altro da sé” e che tendono, perciò, a desiderare per tutta la vita che figli e genitori siano come loro ritengono che debbono essere visti e che essi pensano di sapere meglio dei figli e dei genitori che cosa essi debbono sentire prima ancora che pensano. Il rispetto per ognuno dei partecipanti si ottiene pretendendo che ognuno che prende la parola sia ascoltato dagli altri e che, quindi, si parli uno per volta, aspettando che l’altro finisca, senza sovrapporre la propria voce a quella degli altri. In questo modo si riattiva la possibilità/capacità di ascoltare l’altro, che era andata perduta in relazione all’instaurarsi della situazione simbiotica, caratterizzata dalla convinzione di sapere meglio dell’altro cosa l’altro sta per dire e, quindi, dalla tendenza a precederlo o, comunque, a non ascoltarlo.
Nessuno, chiunque esso sia può arrogarsi il diritto di pretendere di sapere che cosa sta provando l’altro, meglio di lui, né può avere l’ardire di pretendere di sapere meglio dell’altro, quello che l’altro deve sentire e/o pensare. Generalmente gli operatori psichiatrici criticano parzialmente l’impostazione data dai genitori all’organizzazione del contesto di apprendimento “su come sono andate le cose nel tempo”, cioè su come si è strutturata la storia e, tendenzialmente vi aderiscono. Così facendo, senza rendersene conto, cominciano a pensare che i genitori riescono a raccontare in maniera adeguata la realtà che condividono con i figli mentre i figli non lo sanno fare altrettanto bene.
Al gruppo si partecipa tutti alla pari. L’operazione di perequazione della competenza ad avere una opinione non viene perseguita solo dai tecnici ma con il tempo, soprattutto dagli altri componenti del gruppo, genitori e figli, magari appartenenti a nuclei familiari differenti. I componenti di un nucleo familiare patologico non hanno occasione, nel corso della loro vita, di tirarsi fuori dalla loro situazione e di mettersi ad osservare “dall’esterno”, quello che accade loro. Nel gruppo multifamiliare essi si possono “rispecchiare metaforicamente” e praticamente nel modo di funzionare di uno, o più, di uno, dei nuclei familiari che si trovano di fronte e iniziare a riflettere su come imparare a non ripetere acriticamente all’infinito “gli stessi errori”. In relazione alla particolare composizione del gruppo stesso, nel quale sono presenti genitori, figli, fratelli/sorelle operatori, nel gruppo si verifica una situazione unica: i transfert multipli. I transfert psicotici possono essere diluiti, spezzettati e ricomposti in un pensiero unico, a cui le menti di tutti i partecipanti, sia di quelli che parlano che di quelli che ascoltano possono dare un contributo originale e significativo. Quando due persone sono troppo vicine, come nelle situazioni simbiotiche, diventa difficile pensare. Per tornare a farlo è necessario introdurre la funzione di “terzo”. Gli operatori possono svolgere la funzione di terzo con più facilità che di altri contesti di cura della psicosi, ma è soprattutto il gruppo nel suo complesso che con il tempo impara a svolgere “la funzione di terzo”. Il gruppo multifamiliare come altri tipi di gruppi induce le persone che vi partecipano a recuperare il senso di sé rispetto agli altri che, con il tempo, li spinge a ritrovare un senso di se rispetto a sé stessi. Questo recupero sembra sia legato, da un lato alla attenuazione delle tendenze ad espellere parti indesiderati di sé nell’altro (cioè nel ricorso al meccanismo difensivo della identificazione proiettiva), dall’altro dalla tendenza a reintegrare “le forze coesive dell’io” che, da tempo, avevano dimenticato di possedere e di utilizzare. Con questa modalità emerge l’importanza della convinzione dei terapeuti che i pazienti e i familiari hanno la capacità di riaggregare segmenti di sé che abitano nell’altro e di espellere, da sé, parti dell’altro da cui si sentono abitati, conferisce loro una nuova capacità di confidare su se stessi e sugli altri, che ritenevano di avere perduto. Si tratta di instaurare il fenomeno inverso a quello legato alla proiezione di parti di sé nell’altro che, nelle situazioni simbiotiche o identificazione patologiche e patogene, che danno luogo alle interdipendenze patologiche e patogene conosce il suo apice. Focalizzando l’attenzione sulla necessità di riacquisire parti di sé depositate nell’altro e di evitare che l’altro deponga nuovamente parti di lui in noi, cioè ricostruendo i confini ed evitano lo sviluppo indiscriminato ed eccessivo del fenomeno di “ los altros in nostros” si giunge ad intravedere di nuovo, o per la prima volta, la “virtualità sana” presente nelle persone. La virtualità sana non corrisponde soltanto allo sviluppo di parti sane. L’uso massiccio dell’identificazione proiettiva, che conduce all’instaurazione di una comunicazione basata esclusivamente sullo scambio di “messaggi di relazione” e non di “contenuto” inibisce la differenziazione e lo sviluppo individuale e favorisce identificazioni reciproche indifferenziate patologiche e patogene. Lo sviluppo di un itinerario inverso permette il recupero di una virtualità sana che non si sapeva, spesso, nemmeno di possedere. Gli operatori della salute mentale sono prevalentemente orientati a far convergere la loro attenzione sugli aspetti della malattia: gli psichiatri e gli infermieri, in genere, non vanno al di là di prendere in considerazione il comportamento o il vissuto patologico così come si manifesta nel mondo esterno dei pazienti, mentre gli psicoanalisti e gli psicoterapeuti, cercano di capire che cosa sia avvenuto nel mondo interno che poi viene riproposto incessantemente nel mondo esterno. Ma tutti pensano prevalentemente ai tratti patologici. In un nuovo contesto si vedono e si pensano cose nuove. Lavorando nel gruppo di psicoanalisi multifamiliare gli operatori sperimentano una situazione che permette loro di porre al primo punto della loro attenzione la scoperta della virtualità sana , attualmente esistente, del paziente e dei genitori. La virtualità sana di entrambi che quasi nessuno è in grado di far emergere nella realtà e ,quindi, di far riconoscere agli altri come esistente.
Una delle ipotesi su come si è costituita la situazione patologica è quella di Ferenczi. Egli ipotizzò per primo che il bambino potesse essere invaso da contenuti emotico-affettivi di uno dei due genitori e che potesse divenire così il contenitore emotivo-affettivo delle angosce di uno o dei due genitori. Il bambino assorbirebbe questi contenuti che vengono introdotti in lui senza poterli filtrare, vista l’età precoce e sarebbe destabilizzato dalla funzione impropria di contenitore delle angosce dei genitori, che è chiamato e costretto a svolgere. Per un bambino, la cui mente viene sovraccaricata da un compito impossibile, quello di preoccuparsi più dell’altro, il genitore in difficoltà, che di sé, diventa difficile accorgersi chi sta diventando: in queste situazioni egli tende più a pensare di essere un tutt’uno con la cosiddetta figura di riferimento e incontra molta difficoltà a riconoscere sé stesso come separato da quello a cui presta aiuto e da cui si sente aiutato e compreso. L’inizio delle difficoltà può essere costituita dal ritiro progressivo dalla scena dell’incontro con i coetanei o dalla crisi psicotica. Ne consegue la tendenza a sentirsi e ad essere percepito diverso. Comunque il progressivo movimento verso il mondo esterno alla famiglia e l’inserimento nel mondo esterno falliscono. Il paziente torna a casa o non si allontana mai da casa e si rifugia nel o nei rapporti sicuri, con gli unici che gli vogliono bene e non lo rifiutano. L’inizio della malattia costituisce un blocco del processo di sviluppo. Il paziente, ammalandosi psichicamente, torna ad essere piccolo e, quindi, meno responsabile della propria vita e, implicitamente, sollecita il mantenimento di un assetto costante della relazione con il/i genitore/i. Il genitore torna a svolgere la funzione di contenitore nei confronti del figlio, ma in una forma stabile, non evolutiva che non risente dei continui aggiustamenti che lo svolgimento in questa funzione richiede ad un genitore, in relazione alla crescita del figlio. Entrambi rimangono prigionieri di una situazione che non evolve. Così si costituisce una simbiosi patologica o quella che Badaracco definisce una interdipendenza patogena; genitori e figli rimangono bloccati nel processo di crescita. I livelli generazionali si confondono: nella simbiosi non c’è più un padre o una madre e un figlio o una figlia, ci sono due persone che formano un tutt’uno e che sono in continua lotta per imporre il proprio predominio l’uno sull’altro. Non si può riconoscere l’esistenza di due livelli generazionali diversi. Non si passa da una situazione a due ad una situazione a tre, tutto rimane pre-edipico, non si può sperimentare l’esclusione con amore che garantisce la sopravvivenza del sé in forma autonoma, cioè il complesso edipico. Ne risulta danneggiato lo sviluppo del funzionamento corretto della mente che dovrebbe imparare a riconoscere che come ci sono livelli generazionali differenti, così ci sono livelli logici di funzionamento gerarchicamente organizzati: per es. dal concreto all’astratto e viceversa.
Un’altro aspetto da evidenziare è l’impossibilità di meta-comunicare in una situazione psicotica. Prova di ciò è l’impossibilità di percepire che ci possono essere due livelli di comunicazione differenti, per cui quello che viene detto ad un livello di comunicazione può essere negato ad un altro, come nella situazione di doppio legame, della quale il paziente e il genitore si vengono a trovare prigionieri. Tanto è che ognuno di loro ama e odia la persona che lo tiene avvinto e gli dà la sensazione di esistere: se lo perdesse,sentirebbe di poter andare in frantumi.
Il gruppo multifamiliare permette affrontare il processo di disidentificazione. Tale processo riguarda tutte e due o tre le persone ingabbiate nelle identificazioni patologiche su cui si sono costituite le interdipendenze patologiche. E’ un processo pieno di incognite e di inevitabili ricadute, tendente a confinare nuovamente le persone nel precedente modo invalidante di vivere la realtà, in un sincizio de- identificato. E’ un processo drammatico perché si tratta di abbandonare una situazione nella quale ognuna delle due o tre persone che ne fanno parte non hanno la percezione di sé come individui separati ed autonomi, ma sono parte di una coppia o di un terzetto, in cui ognuno sente di doversi preoccupare delle esigenze dell’altro , oltre che delle proprie e in cui ogni decisione e, quindi, nessuna andrebbe presa tenendo presente l’opinione dell’altro, purché sia simile alla propria.
L’equilibrio raggiunto in precedenza era disfunzionale per quanto riguarda l’attuazione del processo di sviluppo di ognuno dei due, ma possedeva aspetti positivi e vantaggi secondari per entrambi. Per il paziente c’era la possibilità di non dover prendere decisioni a proposito di sé stesso, secondo il principio di responsabilità personale. Per il genitore c’era la possibilità di dover sacrificare le aspirazioni ad un progetto di sviluppo autonomo della propria esperienza, rispetto al quale, non erano mancate delle perplessità, in favore della necessità di prendersi cura dell’altro.
Secondo Badaracco , con il passare dei minuti, le menti dei componenti di un gruppo di psicoanalisi multifamiliare iniziano a funzionare come le parti di un’unica grande mente, la “mente ampliada”, che si caratterizza , sostanzialmente, per un aspetto: pareri diversi,espressi da persone differenti, possono coesistere all’interno di un ragionamento comune , a cui ognuno dei presenti fornisce il proprio contributo per capire meglio come stanno le cose e non per prevalere l’uno sull’altro. Pazienti e genitori possono finalmente partecipare congiuntamente ad una discussione in cui ognuno sente che non è tanto importante “pretendere di avere ragione”, ma essere sicuro di essere ascoltato e rispettato per quello che si dice. I messaggi della comunicazione non sono più volti ad ottenere di poter prevalere l’uno sull’altro ma vengono usati per spiegare meglio all’altro quello che ognuno pensa, sente e fa.
Lo stesso risultato si verifica con gli operatori. La sensazione di potersi esprimere in base a quello che si sente e/o si pensa, e che il proprio parere, qualsiasi esso sia, sarà tenuto nella giusta considerazione dal resto del gruppo e, in particolare, dagli altri operatori, contribuisce all’instaurazione di un clima di collaborazione e rispetto reciproco che mira alla valorizzazione massima di tutti gli operatori. L’uso del gruppo di psicoanalisi multifamiliare può dare un aiuto agli operatori che sperimentano, insieme ai pazienti e ai genitori appartenenti a situazioni psicotiche, la possibilità di esprimere un parere che, seppure differente da quello espresso in precedenza, viene tuttavia ascoltato e preso in considerazione e che ciò sia possibile anche nel confronto con i propri colleghi. Questa esperienza può dare un contributo fondamentale alla costituzione di un vero e proprio “gruppo di lavoro”, che funzioni secondo il modello della “mente ampliada”, anche fra gli operatori.
Il gruppo di psicoanalisi multifamiliare permette di realizzare un’esperienza di integrazione di più livelli d’ intervento (individuale, gruppale, familiare) e necessariamente di più orientamenti teorici. Nella sua organizzazione non esiste un contratto terapeutico, ognuno può partecipare secondo i suoi tempi e le sue modalità rispettando un’unica fondamentale regola non parlare a posto di altri ma solo per se stesso. Nella sua struttura il gruppo prevede le porte aperte sia in senso metaforico che concreto e consente ad ogni partecipante di entrare e uscire e di collocarsi al centro o sul confine, parlare o ascoltare. Rispetto al funzionamento, ogni contributo può trovare un suo spazio e una sua collocazione e, una volta accolto è arricchito dal confronto, essere ridistribuito e riutilizzato nei differenti luoghi, non solo terapeutici, ma anche relazionale e sociale