L’originalità di questa nuova raccolta poetica di Luca Benassi, vincitore peraltro del Premio letterario Don Lorenzo Milani – anno 2012, sta soprattutto in una poesia dove l’originaria elementarità del mondo che narra: “la Sardegna”, col proposito di denuncia congiunto all’intento commemorativo di eventi tragici , riesce a pervenire a una capacità espressiva che fa della nudità della parola, come talora di un intenso linguaggio figurato, caratteri essenziali.
Interessante è anche la riscoperta di un’ Isola dove l’avventura può essere vissuta negli aspetti familiari del quotidiano; personaggi e situazioni che restano impressi nella memoria: momenti di una stagione della vita espressi con forza e dolcezza insieme.
Se anche Benassi si lascia accarezzare dall’idea e dal piacere vitale del canto, riesce quasi sempre a distogliersi dalla sua malìa, per scegliere la strada di una musica dissonante e impervia, introducendo nei suoi percorsi anche scarti prosastici capaci di sorprendere il lettore. Riesce in altre parole a passare dalla levigatezza del canto, al tratto ruvido di una superficie testuale che rivela in questi suoi modi il disagio (nell’autenticità) della realtà di cui scrive. Con un possibile accostamento al poeta lucano Rocco Scotellaro, la poesia di Benassi si esprime nella forte fisicità delle immagini, nella concretezza e nel colore dei versi che riescono a trasformare in rappresentazione epica e mitico-religiosa un mondo schiacciato verso il basso e condannato a “un gioco di odio e sfortuna”. In più il poeta preferisce accogliere nei suoi versi il mistico silenzio sprigionato anche dai semplici elementi della realtà quotidiana, piuttosto che seguire il “frastuono” di una poesia gonfia di retorica.
Nella prima parte del libro, Il guado della neve appunto (una traduzione peraltro di una delle possibili etimologie del nome del paese di Baunei, “Ogliastra”) il dialetto sardo, da lingua della realtà diventa lingua della poesia. L’impulso espressivo dialettale si qualifica come imperiosa necessità interiore. Ne riporto alcuni versi nella versione italiana:
[…] E’ questa una buona notte, una stretta di mano / una processione del silenzio che mai / chiude l’orbita vuota incisa nel granito. / Ti salutano i figli, i nipoti / quelli che ti hanno amato / l’estrema generazione. /
E ancora: […] gli uomini camminano / braccati dalla luna incinta di notte / affidano a un orecchio mozzato / un riscatto da chiedere / un lettera da scrivere ancora. /
Emerge la poetica del portarsi oltre il varco d’acqua bassa, del passaggio ad un altrove dove l’io possa sentirsi finalmente libero dai retaggi di una tradizione di condanne e misfatti. Inoltre, come scrive Erminia Passananti nella prefazione, Il guado della neve è una proposta di comunione elettiva tramite la partecipazione di altri artisti al volume come Speranza Secci, Stefano Orrù e Tiziana Orrù per la revisione del testo in lingua sarda. Infatti accanto ad ogni componimento in lingua italiana vi è la traduzione in sardo baunese che costituisce un unicum linguistico, con caratteristiche fonetiche, grammaticali e lessicali non riscontrabili altrove nell’isola.
Nelle successive e distinte sezioni della raccolta Il dovere dell’acqua, Su logu, su contu e Matteo Boe, Benassi abbandona il dialetto e mescola con armonia poesia e prosa poetica.
Nella sezione Il dovere dell’acqua sotto il nome di Linea di luce sono raccolte meditazioni su una fotografia di Valeria Floris:
I
Ecco la luce. Luce di luce, frattura di segno, corpo che cade molle alla luce. Scrittura di onde, legno crudele, spento, geometrico nella forma del corpo che cede alla luce, armonioso come linea che cede alla torsione sotto la fruste della luce.
E più avanti:
VII
Poi dilaga ed esplode / deflagra il muro / in un fragore di fotoni.
Come si vede, andamento prosastico, ma tagliato da lampi d’immagini e d’intuizione feconda per sintesi e invenzione linguistica. Anche nelle sezioni successive cogliamo un poesia sottilmente intellettuale, che incide sulla pagina disegni particolarissimi per grazia e intensità. Numerosi passaggi poetici sembrano sottolineare il fondamento della disciplina fantastica dell’autore secondo cui la matrice dell’invenzione risiede nell’osservare e descrivere precisamente.
Finissimo questo componimento che apre la sezione Su logu, su contu:
Mi chiedi dove sia stato la sera, / quale tramonto violetto, quale giorno / abbia trattenuto i denti del cuore. / Mi chiedi del mare / del filo di bisso, dell’abbraccio cavo / del sole all’ultima pietra. / Ero solo, ti dico, su una sedia / ad ubriacarmi al cospetto di Dio.
Sul piano dei contenuti espressi, toccante e avvincente è il tema della sposa come corpo desiderato, penetrato, abusato che invece l’uomo dovrebbe imparare a vedere con rispetto ed amore come corpo della propria compagna di vita “regina del bianco / signora del mare”, madre del dolce figlio bambino.
L’ultima sezione del testo è dedicata a Matteo Boe “l’uomo del coltello, i capelli neri bagnati”, l’ex primula rossa del banditismo sardo, legato alla pratica dei sequestri di persona di cui però nei versi non c’è cenno. In questo caso ci troviamo di fronte a una poesia che ama ritrarre le esistenze, che usa la propria capacità descrittiva, la rigogliosa mistura fra realtà e immaginazione per offrire il ritratto profondo di persone e situazioni, prese dall’omertoso e spigoloso mondo sardo e fatte divenire emblemi.
Vorrei concludere questa mia breve analisi con le parole dello stesso Benassi: “Nei testi di Matteo Boe ci sono condanna e dolore, l’uomo feroce che è giusto rimanga in galera e l’uomo coraggioso, ci sono il rapitore e il padre al quale hanno ammazzato una figlia, il bandito e il comunista che pensa a un mondo più giusto. A me interessa questa irrisolvibile contraddizione che esprime la condizione e il sentimento di un’Isola, dilaniata fra la resistenza di un passato antichissimo e l’ingombro di un’incompiuta modernità”.
Rosa Salvia