The Venice International Foundation è un’associazione senza scopo di lucro costituita il 15 novembre del 1996. E’ uno dei Comitati Privati Internazionali per la Salvaguardia di Venezia del Programma UNESCO e opera sotto il Patrocinio della Regione Veneto. Per ricevere gratuitamente la Newsletter scrivete a [email protected].
CLARA SANTINI
La sesta decade del XVII secolo segna per l’intera Europa l’inesorabile avvento della chinoiserie. Scocca l’ora delle lacche provenienti dal “lontano Oriente”, destinate a suscitare un consenso unanime, privo di cedimenti, anzi contrassegnato da impennate di fanatico entusiasmo. E´ questa l’epoca dei cabinets des chinoiseries, sorta di Wunderkammer esotiche allestite inseguendo la bizzarra ispirazione della moda orientale e straripanti di tesori.Sono preziose lacche ma anche giade, bronzi, porcellane, tappeti in seta, che dai fastosi fondali laccati ricevono l’appropriata valorizzazione. Se può sembrare scontato che la vicenda inerente alla formazione del gusto europeo per l’esotico, galvanizzato dai resoconti di viaggio di esploratori e missionari, coincida con l’incontenibile passione per i manufatti laccati (una vera e propria mania che indusse a un incremento esponenziale della domanda, al conseguente rapido cedimento qualitativo della produzione cinese e a una serie di caparbi tentativi da parte europea di carpire il segreto delle “supreme” vernici orientali), risulta del pari inevitabile che, in Italia, le prime “contraffazioni” avessero luogo a Venezia, dove la lacca aveva alle spalle una tradizione plurisecolare.
Nel Sei e Settecento, infatti, i depentori alla cinese (come si facevano chiamare gli artigiani dediti alla pratica della laccatura, consci della natura imitativa del loro operato) continuarono a servirsi,come per il passato, della vernice per eccellenza, la sandracca, per conferire ai manufatti dipinti la tanto ambita lucentezza e la necessaria protezione.Risalgono addirittura al 1283 i minuziosi decreti emanati dai Giustizieri Vecchi (la magistratura preposta al controllo dell’operato artigianale) che stabilivano …che cofani, scrigni, tavole da pranzo, ancone, taglieri, coppe e catinelle di legno i depentori dovevano consegnare al cliente; per gli oggetti rivestiti in cuoio poi la consegna era lecita solo dopo tre giorni dalla loro verniciatura.
Pratica ornamentale già ampiamente accreditata a Venezia nel XVI secolo (ove l’incastonatura di materiali preziosi su superfici lignee si configurava come traslitterazione in chiave lagunare dell’intarsio “alla certosina” di ascendenza moresca) l’insolito connubio lacca-madreperla s’impone nell’arredo come soluzione decorativa ricercata e di grande effetto al trapasso fra Sei e Settecento. È questa la fase della rigorosa osservanza dei canoni di laconica impassibilità cui soggiacciono le raffigurazioni orientali, dell’adeguamento ai motivi e alle forme delle lacche originali contemporanee, processo cui non fu estranea la suggestione esercitata da modelli olandesi e inglesi. Dal momento, infatti, che la Serenissima non intratteneva rapporti diretti con i mercati del Levante, l’importazione di manufatti laccati dall’Estremo Oriente doveva essere un fenomeno del tutto estemporaneo, mentre i consolidati legami del patriziato veneziano con la Compagnia delle Indie Orientali lasciano presumere che le prime cineserie in lacca a giungere in laguna fossero proprio quelle anglosassoni d’imitazione. È inoltre verosimile che nelle botteghe veneziane circolassero prontuari iconografici, come il popolarissimo Treatise on Japanning and Varnishing che John Stalker e George Parker diedero alle stampe a Londra nel 1688.
L’influenza esercitata sull’ebanisteria veneziana dalle “contraffazioni” in lacca di marca continentale, inglesi in particolare, è del resto comprovata da una numerosa sequela di esempi. Il fatto poi che a Venezia molte delle dimore storiche dell’antico patriziato conservino a tutt’oggi, con più frequenza di quanto non sia ragionevole credere, arredi laccati di fattura inglese, costituisce un’ulteriore riprova dell’anglofilia che pervase la civiltà lagunare settecentesca. Paradigmatico, in proposito, il confronto fra un cassettone a ribalta databile con buona approssimazione attorno al 1710-1715 e un mobile a due corpi, cronologicamente di poco successivo, entrambi conservati a Venezia, nella medesima collezione. Interamente costruito in legno di quercia, il primo esemplare è senza alcun dubbio di provenienza inglese: particolare inconfondibile, fra l’altro, è la fattura di bocchette di protezione e maniglie in ottone. Inflessioni analoghe contraddistinguono il fantasioso repertorio decorativo del mobile a doppio corpo, d’incontrovertibile fattura veneziana e collocabile cronologicamente entro il terzo-quarto decennio del XVIII secolo.
Analogamente il sommesso impianto timbrico, di un cupo verde lacca, è acceso dai bagliori dorati di freschissime chinoiseries cui rapide ombreggiature a penna d’oca conferiscono maggior risalto plastico. L’utilizzo per i particolari decorativi della pastiglia, ottenuta facendo colare dal pennello, negli appositi tracciati e senza poter assolutamente ricorrere a stecche per eventuali correzioni, un fluido amalgama di gesso e colla, si configura come una versione squisitamente continentale del taka-maki giapponese. Entro garbate parentesi narrative turbanti di gusto persianeggiante pacificamente convivono con parasoli e devoti cortigiani abbigliati secondo il gusto cinese, mentre un sole dai dardi inanellati benignamente sorride. Ma a un’attenta analisi questa spensierata contaminazione fra Oriente Vicino e Lontano, fluttuante entro una rarefatta trama decorativa a capricciosi girali fitomorfi, sembra rivelare, rispetto alle diligenti trascrizioni anglosassoni, un’inflessione nuova, lievemente ironica, già protesa ad affrancarsi dalla pedissequa imitazione della novella orientale.
La progressiva emancipazione del depentore dal decoro “alla chinese” di stretta osservanza determina, nei primi del Settecento, un’evoluzione in senso comico della chinoiserie, assorbita entro categorie ornamentali di conio europeo e gradualmente “addomesticata”. È questo il momento irripetibile dell’affabulazione creativa, di una spigliata contaminatio, per la quale mandarini e dame veneziane, fumatori d’oppio e guerrieri con vessilli Ming convivono con disinvoltura in un contesto di particolari lagunari camuffati alla cinese.
Nel casino di Alvise Zenobio sul Canal Grande si poteva ammirare un’intera “camera alla cinese”, mentre un sontuoso fornimento in lacca verde smeraldo a cineserie dorate, che originariamente arredava un salone di Palazzo Calbo Crotta agli Scalzi, è oggi maestosamente “ricoverato” a Ca’ Rezzonico. È il concetto del continuum ornamentale tipicamente settecentesco, ribadito dalla raffinatissima infilata di “camere alla chinese” che in antico si affacciavano sul rio di San Barnaba, lungo l’ala destra del primo piano nobile del museo. Del superbo complesso ornamentale facevano parte sei battenti in “lacca veneziana”; ne rimane ancora in situ un’unica smagliante reliquia: una porta in legno di abete laccato su entrambi i lati a chinoiseries dorate, con particolari a rilievo rifiniti in pastiglia. Entro duplici specchiature scontornate da cornici applicate in legno dolce dorato, increspate da ariose rocailles, galleggiano su liquidi isolotti frementi divagazioni orientaliste, intrise di luce e dalla dinamica narrativa sempre mutevole, ma così genuinamente veneziana da far addirittura pensare a un pregresso disegno tiepolesco.
La vaga approssimazione prospettica, unitamente ai disarticolati costrutti delle fragilissime “pagodine” dorate sugli sfondi, stanno tuttavia a rappresentare il solitario portato di una Cina “di maniera” che nel l758, data cui è probabile risalga l’intero complesso, si configura come geniale sintesi di raffinato esotismo e bonaria quotidianità espressiva. È questa la ricetta veneziana di una Cina dalle argute inflessioni lagunari, garbatamente ironica, estremamente ripetitiva nei soggetti e di maliziosa ispirazione popolaresca. Il dato è particolarmente evidente per la pressoché illimitata varietà di manufatti laccati di piccole dimensioni, che costituivano una sorta di produzione “continuativa” della Serenissima e che venivano largamente apprezzati anche oltre i suoi confini: dai servizi da toeletta con specchierine munite di sostegni, a vassoi e guantiere, da alzate e centritavola fino alla sterminata gamma di scrigni, tabacchiere, scatole e scatoline e agli accessori per il camino, dai servizi per profumi, per la tavola, per la scrittura e il gioco, alle custodie per occhiali, agorai, vasi e portavasi, orologi, cannocchiali e soprammobili.