Se da un lato si ha questa leggera predisposizione al sorriso, dall’altro non si può che fare ammenda della lontananza tra gli uomini che si consuma sullo schermo dentro profondissimi campi lunghi che sembrano risucchiarli. Lui fa il bagno nella cisterna del palazzo e poco dopo dal rubinetto di lei fuoriescono bolle di sapone che vanno a cozzarle addosso senza riuscire a svegliarla (scena da applausi); lei offre un bicchierone di succo d'anguria, di nuovo il cocomero che divide, e lui fa finta di berlo per gettarlo, appena riesce, in un angolino. Lei espelle un’anguria da sotto la canottiera, lui si fa una sega spiando la collega che si trastulla con una bottiglia vuota. Anche nei momenti in cui riescono a stare insieme faticano a trovarsi: dopo mangiato si aggrovigliano sotto il tavolo fumando una sigaretta, nell’istante di massimo contatto sono rinchiusi in uno sgabuzzino con scaffali e scaffali di dvd porno, ma pure qui, un secondo prima del passo decisivo, qualcosa sembra bloccarli.
E così tra i sorrisi, comunque pochi e spesso amari in particolare per ciò che riguarda i siparietti erotici di Hsiao dove la potente pioggia del passato è ridotta in scala ad una bottiglietta bucherellata tenuta in mano dall’assistente tecnico, si arriva alla conclusione. Inaspettatamente, o forse no visto il suo curriculum, Tsai si rivela micidiale con una sequenza che ha un carico lesivo potentissimo, dolorosamente indimenticabile, nel quale si innestano riflessioni profilmiche, ecco che ritorna IL distacco: all’inizio un’anguria adesso un separè che tenta di essere goffamente oltrepassato con la fellatio soffocante evidenziata dal sinistro primo piano della ragazza che quasi affoga nell’atto, ed extrafilmiche, dove una donna è solamente il suo corpo svuotato che a sua volta è un oggetto utilizzato come mezzo per raggiungere uno scopo nella totale indifferenza del regista e dei suoi collaboratori (“mettila di qui, no girala di là”).
Voto 8 al film e 10 alla sua funerea chiusura.
Nota a margine.
Io avevo già visto Il gusto dell’anguria circa un anno fa. O meglio, avevo provato a vederlo, ma dopo quaranta minuti avevo staccato perché lo trovavo pesante. Mi viene da pensare che l’unico limite di Tsai Ming-liang sia quello di aver creato un continuum talmente autoreferenziale da non poter essere scorporato. O lo si vede tutto o è meglio non vederlo, perché penetrare nel suo mondo guardando un solo film diventa praticamente impossibile.