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IL JOBS ACT DELLE TUTELE DECRESCENTI | Quando le politiche del lavoro sono una sconfitta per l’umanità

Creato il 17 giugno 2015 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia
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JOBS_ACT_sconfitta_umanità_amedit (2)di Giuseppe Maggiore

In tempo di Jobs Act l’Italia sembra essersi trasformata in una sorta di Giano bifronte. Due facce contrapposte che mostrano una diversa rappresentazione della realtà che sta vivendo il Paese. Da una parte c’è il volto rassicurante che esprime ottimismo e soddisfazione di fronte a quelli che gli appaiono come i segni evidenti di ripresa dalla grande crisi, e dall’altra c’è quello tutt’altro che ottimista, che non sembra accorgersi di questi segni, e su cui leggiamo pessimismo, sfiducia, incertezza e tanta, tanta paura. Ottimismo motivato e lungimirante il primo, o realistico e disincantato pessimismo il secondo? Quale dei due volti mostra la realtà?

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Stime, cifre, numeri che rimbalzano da una parte all’altra; indicatori che salgono e scendono come in un elettrocardiogramma scosso da continui colpi e contraccolpi. Alla fine è tutto un inestricabile groviglio di numeri in cui si fa fatica ad avere un’idea chiara della situazione. Sarà che i numeri, con cui ormai siamo abituati a misurare tutto, possono sì darci delle cifre, ma non sono in grado di formulare un discorso articolato, fatto di gesti e di parole, lì dove sarebbe necessaria una loro narrazione. Quando dietro quelle cifre, ci sono uomini in carne e ossa, e storie, situazioni, stati d’animo, non basta il crudo dato numerico. Ma, si sa, tutto il sistema sociale si regge sull’economia, ogni cosa è ormai indissolubilmente subordinata a questa legge in cui contano le cifre. E in questo regno fatto di numeri sembriamo ormai tutti rassegnati nel vederci trasformati nell’impalpabile segno grafico del numero. Infimo, perentorio, asettico, inespressivo. Il numero non ha voce, non ha emozione, non ha sentimento, non ammette replica di nessun tipo. È un dato imperturbabile che si presta a operazioni di divisione e di moltiplicazione, a giochi di sottrazione e di addizione. Sta di fatto, però, che se quel numero siamo noi, siamo dunque noi ad essere ridotti alla mera variabile di un discorso economico, basato sul freddo calcolo matematico e soggetto alle intransigenti leggi di mercato. Nient’altro che questo.

Abilissimi guru dell’economia e fantomatici politici si susseguono al governo di una nazione che non li ha scelti e che ne ignora la provenienza. Un potere parassitario, che si è generato per partenogenesi e che si autoalimenta, si autolegittima, si passa lo scettro di mano in mano, imponendo coattamente le proprie decisioni ed eludendo deliberatamente le più basilari regole democratiche. Il voto. Che fine ha fatto il voto? La protesta. A che serve protestare contro un potere che, nonostante tutto, va avanti sulle proprie decisioni? Una lunga storia di malapolitica, magna magna e menefreghismo generale ha fatto da preludio a una bianca dittatura. Un ventennio di varietà e di mignottume, ha ben forgiato una nazione di inerti spettatori, capaci solo di infervorarsi dietro un pallone. “Goal!” …e intanto che la squadra di calciatori strapagati segnava, recitando una partita già precedentemente giocata a tavolino, il potere giocava indisturbato le sue partite, procedendo nella sua opera di riforme (alias di smantellamenti). Oggetto di quelle riforme sono stati servizi, diritti, tutele. Partite giocate sulla pelle di ignari lavoratori indefessi, troppo distratti dal calcio, dal gossip, da scandali che si sovrascrivono incessantemente cancellando ogni loro traccia e memoria, dalla corsa all’ultimo iPhon, dal “gratta e rigratta che prima o poi quella puttana di Dea Fortuna te la darà”. Partite giocate sulla pelle dei pensionati, che una vita di contributi versati non basta a garantirgli un misero sussidio di sopravvivenza per i pochi anni che gli restano da vivere. Partite giocate sull’individuazione del nemico di turno creato ad hoc (quello che ci ruba il lavoro, quello che ci ruba la casa, quello che minaccia la famiglia “naturale”…).

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Un bel giorno, a turno, tutti finiscono per strada a scioperare. Scioperano gli agricoltori e gli allevatori, scioperano gli operai delle fabbriche, scioperano i commessi della grande distribuzione organizzata, scioperano gli insegnanti, e ancora i benzinai, gli autotrasportatori, i tassisti, i netturbini, i giornalisti, i collaboratori domestici, i medici, gli avvocati, i magistrati… Tutte le categorie professionali, ciascuna per conto suo. Intanto, il potere, se ne infischia, tutt’al più commenta, fa uno dei suoi ben collaudati discorsetti populisti, badando bene che siano sempre formulati al plurale (“Stiamo cercando di…”, “Dobbiamo fare in modo di…”, “Studieremo una soluzione…”): hai mai visto un politico che parla per se medesimo, prendendosi precise responsabilità e assumendosi un impegno personale? Lo fa solo in campagna elettorale (finché sarà ancora costretto a ricorrervi per potersi accaparrare la sua dorata poltroncina e un microfono sempre ben disposto ad amplificare i suoi eventuali eccessi d’aria nello stomaco). Se lo fa in tornata elettorale è perché sa benissimo che lì esiste un tacito accordo, tra candidati ed elettori, in cui i primi devono elargire sogni ai secondi, per tutta la durata dello spettacolo. Finita l’euforia suscitata dagli improvvisati eroi di turno, dai salvatori della patria dotati di ottime capacità attoriali (ben collaudate alla scuola del marketing pubblicitario), si ristabilisce la normalità. I sogni cedono via via il passo alla cruda realtà. Torna a riaffacciarsi prepotentemente lo spettro della crisi che esige sempre e solo sacrifici, e il sottinteso è che a pagare saranno sempre i soliti.

Nuove  ondate di scioperi. Inutili. Perché quando si è giunti allo sciopero significa che si sta già alla frutta, che i giochi sono ormai fatti, e nulla ormai potrà riportare le cose allo stato di prima. Doppiamente inutili. Uno perché quasi sempre lo sciopero avviene in ritardo (e per di più pilotato da chi ha avuto ruolo attivo nelle ragioni che lo hanno determinato), due perché, per quanto eclatante, è pur sempre un evento isolato, circoscritto, un trascurabile prurito passeggero sul grande grembo del corpo sociale. Ciascuno lotta per sé, per la propria categoria, tirando acqua al proprio mulino. Sta qui la fallacia dello sciopero come strumento atto a contrastare una qualche forma di ingiustizia.

Da nord a sud, i dipendenti della grande distribuzione organizzata stanno scioperando. Da Monti a Renzi è stato per loro tutto un processo di peggioramento delle condizioni lavorative. La liberalizzazione delle aperture delle attività commerciali, non solo non ha sortito l’effetto di nuove assunzioni, ma ha per di più decretato il blocco delle assunzioni e annunci di esuberi di personale da parte dei grandi colossi. Si resta aperti sette giorni su sette sulla pelle dei nuovi schiavi (con sempre meno forza lavoro alle proprie dipendenze). Il lavoro domenicale e festivo è diventato d’obbligo per tutti, indipendentemente dalle formule contrattuali, con gravi ripercussioni sulla sfera privata e sulla vita affettiva, relazionale e culturale dei lavoratori. Annullamento dei contratti integrativi, demansionamenti, abolizione degli extra in busta paga per il lavoro prestato nelle domeniche e nei festivi, continue e sempre più pressanti richieste di flessibilità completano l’opera di smantellamento. I gaudenti frequentatori domenicali e festivi dei centri commerciali sono forse all’oscuro di questa situazione? Oggi non è più ammissibile crederlo. È più verosimile pensare che semplicemente se ne infischiano. E a qualche commesso che imprudentemente si lasciasse scappare una lamentela, rispondono con una certa stizza: “Ringrazia il cielo che hai un lavoro!”.

Schiere di giovani (e meno giovani), di diplomati e di laureati vengono sfruttati a pieno regime con contrattini (ini ini ini) a tempo (oggi vanno tanto di moda gli stage), dietro la corresponsione di miseri salari e di false promesse di una eventuale assunzione. Non importa se non godono di nessuna garanzia, di nessuna credibilità sul piano finanziario, se non hanno le condizioni necessarie tali da poter mettere su un progetto di vita. L’importante è che lavorino, che non stiano a fare i fannulloni o gli schizzinosi! Bravi. Complimenti ai fautori di questa nuova logica. Barattatori di diritti di cui hanno goduto fino a ieri pur non avendoli conquistati col proprio sangue. Predicatori della rassegnazione, del tirare a campare, dell’accontentarsi a qualunque costo. Incapaci ormai di ragionare in termini di dignità del lavoratore, di valore delle proprie competenze, di diritto a una certa stabilità, di giuste aspirazioni a una crescita umana e professionale.

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Ad maiorem Labor gloriam. La nuova morale imperante è quella del lavoro per il lavoro. È questo che gridano gli slogan dei tanti scioperi puntualmente tardivi e mancanti del vero bersaglio: Lavoro!  Che nella sua moderna accezione non corrisponde necessariamente a Dignità. Naturale conseguenza di questa nuova visione, il Jobs Act (con i suoi contratti impropriamente definiti a tempo “indeterminato”, tanto quanto improprie sono le sue tutele “crescenti”) ridefinisce nel complesso il concetto stesso del lavoro, ne ristabilisce le regole. La figura del lavoratore ne esce fuori totalmente svilita e priva di reali tutele. Step dopo step esso verrà esteso a tutte le categorie professionali. È un nuovo “cavallo di Troia” che fa da apripista a sempre nuove spoliazioni ai danni dei lavoratori, un fagiolo che cade a pennello in una società che premia la furbizia e l’ingordigia. Nessuno può ritenersi al sicuro dai suoi effetti. Lì dove non si riuscirà a convertire i vecchi contratti con i nuovi, basterà tirare giù un’insegna e alzarne una nuova. Cambiano le regole ma i padroni son sempre gli stessi. Licenziamenti facili peseranno come una spada di Damocle sulla testa dei lavoratori, e  molto prevedibilmente aumenteranno anche i casi di mobbing.

Di questa mattanza, di questo saccheggio ai danni dei lavoratori, lo Stato si è reso complice e fautore, decretando sì, una vera sconfitta per l’umanità. Compito dello Stato non è soltanto quello di garantire il diritto al lavoro, ma anche e soprattutto che questo diritto coincida con condizioni dignitose tali da generare un reale benessere per il lavoratore. La realtà, al momento, è tutt’altro che questa.

Giuseppe Maggiore

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Cover Amedit n° 23 – Giugno 2015 “Il ragazzo dagli occhi di cielo” by Iano

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 23 – Giugno 2015.

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