Il numero che dirada le ombre che si allungavano sul Kenya è anche una percentuale schiacciante: 67 per cento, oltre quattro milioni di voti su poco più di sei milioni di elettori. Questo è il risultato raccolto, alla prova delle urne, dal fronte del "Si", quello che voleva la ratifica del nuovo testo costituzionale. Il Kenya si da' una nuova legge fondamentale che innova profondamente l'architettura dello stato, un testo caratterizzato da una forte impronta progressista, sicuramente una delle costituzioni più avanzate del continente.
Il contenuto. Queste le novità più interessanti. Il Kenya resta una repubblica di tipo presidenziale ma il baricentro del potere si sposta in parte dal Presidente (che deve sottoporre le nomine ministeriali al vaglio del legislativo, dal quale può essere anche messo in stato di impeachment) al Parlamento, che guadagna peso e spazio, diventando bicamerale, attraverso la creazione di una Camera alta composta da 60 membri in rappresentanza delle 47 contee del Paese. Non meno importante è la previsione di una Corte Suprema composta da cinque giudici, competente sui ricorsi inoltrati dalle altre due supreme magistrature: la Corte d'Appello e la Corte Costituzionale. Per garantire che le nomine avvengano in base a criteri di merito e competenza e non per uno spoyl system politico, etnico o tribale, viene istituita una Judiciary Service Commission, indipendente. E' una novità rilevante l'introduzione della cittadinanza duale, forse uno dei punti forti della riforma, quello che ha fatto guadagnare enormi consensi presso una popolazione in cui quasi ogni famiglia della classe media ha figli o nipoti che studiano, lavorano e vivono all'estero; adesso, l'ottenimento di una nuova cittadinanza non significherà più la perdita di quella keniota.
Il fattore religioso. Gli elementi più controversi, però, non avevano a che fare con la politica ma con la religione: l'articolo 26 comma 4 ribadisce l'illegalità dell'aborto ma, di fatto, tempera il divieto prevedendo che possa essere praticato per un trattamento di emergenza, se sia a rischio la vita o la salute della madre o anche nel caso in cui una legge lo autorizzi. Un dispositivo volutamente aperto ad eventuali riforme che ha spinto la Chiesa keniota sul piede di guerra, al pari di un altro articolo, il 24 comma 4, che esenta i cittadini di religione islamica dal rispetto di una parte della Carta, quella inerente ai diritti, in relazione a status personale, matrimonio, divorzio ed eredità, tutti ambiti che tornano sotto l'autorità dei Khadi, tribunali che amministrano il diritto islamico e che l'articolo 170 riconosce e incorpora nel sistema giuridico dello stato.
Ancora più delicata, forse, era la questione della proprietà terriera, proprio quella che aveva innescato l'esplosione di un'ondata di violenza etnica nel marzo 2008 - pochi mesi dopo la contestata elezione del presidente Mwai Kibaki - che aveva fatto 1300 morti e 650 mila sfollati. A riguardo, la nuova Carta prevede l'istituzione di una commissione per risolvere le dispute che due anni fa accesero la miccia ma soprattutto introduce il principio per cui la terra acquisita illegalmente possa essere recuperata.
La strana coppia. Gli uomini chiave di questa vittoria sono stati i protagonisti di quell'accordo negoziato dall'ex Segretario generale dell'Onu, Kofi Annan, tra Kibaki e il suo principale avversario, Raila Odinga, nominato Primo ministro nel governo di coalizione che ne seguì. Il fatto che non ci siano stati disordini o incidenti è un'ulteriore dimostrazione della consapevolezza con cui il Kenya ha affrontato il referendum, vivendolo come un'occasione per riaffermare la sua maturità politica. E l'obiettivo è stato centrato, nonostante la forte polarizzazione che ha preceduto il voto, con pesi massimi dell'esecutivo come Kibaki e Odinga schierati per il Si e il ministro dell'Istruzione superiore, William Ruto, a favore del no, sostenuto in modo massiccio dal clero. Adesso sono proprio i primi due quelli che hanno più da festeggiare: Kibaki, perché dopo la brutta macchia della violenza di due anni fa, ottiene una patente, di nuovo immacolata, di serio riformista mentre Odinga pregusta la successione, cui si candiderà nel 2012. Certo, la Rift Valley resta una provincia recalcitrante e diffidente (qui il No ha stravinto), ma il risultato è abbastanza netto da scoraggiare eventuali colpi di testa di politici avventurieri. Il quadro è chiaro, il Kenya ha i mezzi per ritrovare la stabilità e il suo ruolo di potenza regionale.
Alberto Tundo
PeaceReporter