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Ma perché accade tutto questo? Sarà per la tendenza a eliminare, il conflitto, in qualunque forma, dalle relazioni? Sarà per la paura del conflitto? Che spinge a voler ridurre tutto a uno. Dimenticando che l'amore, qualunque amore, nasce da una disgiunzione, da un "due", irriducibile! Magari sarà la persistenza di una qualche idea archetipica del carattere originario dell'Uno, che non rende possibile pensare una relazione se non come tappa verso la fusione! Deve trattarsi, allora, di una tendenza molto potente se anche i cristiani che da due millenni proclamano un Dio-Amore, che, in se stesso, è relazione, diversità, è complessità, è un Tre mai fuso, non riescono a pensare, ad accettare e ad amare, insieme, l'unità e la pluralità, l'identità e la differenza: una "reale" e indelebile diversità! Ragione per cui, anche per loro, amare appare, troppo spesso, non primariamente accogliere, "ospitare" l'altro, nella sua alterità, ma "fare" qualcosa per cambiare l'altro, per rendere l'altro simile a sé.
Tutto ciò sembra veramente buffo. Che sia il caso di ripensare, oggi, anche l'amore? Cominciando dal considerarne la fragile temporalità? E dal vederlo non come qualcosa che si "ha", ma solo come un cammino, mai garantito, in cui non si può entrare senza liberarsi da ogni idea preconfezionata dell'altro e senza la sincera disponibilità ad apprendere dall'altro? E se la valenza universale - e ontologica - dell'amore consistesse proprio nel fatto che, amando, si impara che è possibile fare esperienza della verità del mondo a partire dalla differenza e non solo dall'identità (Badiou)?
E se questo tipo di amore fosse anche un criterio per immaginare la convivenza umana in un mondo pluralistico e decentrato?
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