di Cristiano Abbadessa
Un tempo, se un editore tentava di coinvolgere un critico letterario in una presentazione di un libro aveva buone probabilità di sentirsi rispondere sì o no sulla base di un giudizio che, implicitamente, il critico esprimeva sulla bontà del lavoro svolto; e se il critico decideva di partecipare, lo faceva a titolo gratuito. Non mancavano, già da epoche lontane, coloro che trasformavano il presenzialismo in solide marchette, bravi a monetizzare una prestazione extraprofessionale che la maggioranza dei colleghi svolgeva gratuitamente; erano però, appunto, minoranza, e i casi di pagamento della gentile collaborazione si verificavano quando il critico era abbastanza avido e famoso e l’editore magari poco noto ma ban dotato di mezzi e rampantismo, ma mai quando il rapporto era paritario, tra grandi nomi come tra emergenti.
Il fatto è che, un tempo neppure troppo lontano, era ben chiaro quale fosse il lavoro e quale fosse la passione, il di più che uno metteva gratuitamente. Un critico scriveva da qualche parte, non necessariamente su una testata famosa, e per questo veniva pagato (magari poco, ma da lì traeva da vivere). Se accettava di sponsorizzare un’opera era perché l’aveva apprezzata, perché credeva nel progetto editoriale, perché trovava giusto spendere qualcosa di sé per promuovere un nuovo autore o un nuovo editore. Recensire cose belle e cose brutte faceva parte degli obblighi del lavoro, per il quale era pagato, mentre il passatempo era dare una mano a chi lo meritava.
Oggi, spesso se non sempre, accade l’esatto contrario. Con l’avvento del web, ci sono uno sterminio di blog e siti letterari, talora anche ben fatti, credibili, talvolta individuali ma talaltra persino organizzati e articolati come delle vere e proprie riviste letterarie. Poiché, però, tutto su internet si pretende gratuito, ecco che questi siti o blog non sono dei “prodotti” e non hanno alle spalle delle “imprese” e, di conseguenza, chi ci lavora non viene pagato. Il lavoro (e di lavoro si tratta, perché occupa la maggior parte del tempo e delle energie) non è più la fonte di reddito, che si cerca altrove. E, quindi, il critico usa la sua opera come vetrina della propria professionalità, per guadagnarsi da vivere attraverso ospitate o presentazioni, marchette e prestazioni di vario tipo, dalla scrittura su commissione alla fornitura di sevizi editoriali (specie se il soggetto è collettivo, come per alcuni dei più famosi blog letterari).
In teoria, non vi è nulla di male. Anche perché, a essere onesti, non è che siano solo i critici o quanti scrivono di letteratura a seguire tale prassi. Nel mondo editoriale, a ben vedere, un po’ tutti si arrangiano così: dagli autori (che a volte esercitano tutt’altro mestiere, ma a volte di parole vivono, in forme però meno artistiche e spontanee) agli editori (che, come noi stessi, hanno nella fornitura di servizi editoriali o nella consulenza quella fonte di sostentamento che non viene dalla vendita dei libri pubblicati).
Il problema, però, a mio avviso esiste. Di fronte alla mancanza di un mercato in cui vendere il proprio vero lavoro, molti operatori sono costretti a trasformare in attività professionale, spesso ingrata, le loro capacità, mettendole al servizio di chi può semplicemente pagare. Perché va detto che tante volte ci si guadagna la pagnotta non perché si offra la collaborazione a opere più realistiche e redditizie, ma perché magari si sono raccolte le memorie del personaggio famoso o si è data consulenza su una pubblicazione “artistica” di qualche ricco mercante: gente che paga le opere di suo, ma che non per questo ha poi un mercato.
Il rischio è che, alla lunga, si finisca per considerare lavoro quelle prestazioni professionali fornite solo per raggranellare un po’ di denaro, e che si chiami passatempo quell’attività cui ci si dedica con passione e competenza per gran parte del tempo. Il che, spesso, è un vero equivoco; specie quando, come nei casi citati, il passatempo non è cosa che facciamo per noi stessi ma opera capace di coinvolgere e interessare altre persone (a volte centinaia, o persino migliaia), mentre il cosiddetto lavoro finisce in qualcosa che non appassiona più né chi lo fa né chi lo commissiona.
Alla fine, e ritorno su una mia vecchia idea, il mercato, così come è concepito e regolato, è strumento troppo stupido e troppo poco democratico per essere preso come metro di valutazione della qualità di un’opera e di un’artista. Tantomeno può assurgere a strumento cui delegare la definizione ontologica di una persona.