di Cristiano Abbadessa
Per cominciare, Giulio Mozzi distingue fra quanto avviene nell’editoria letteraria e in altri generi di editoria. Qui mi sento di precisare che, in realtà, non vi è una differenza dovuta alla tipologia di editoria, ma che i rapporti tra autore e editore, con rispettive prerogative, sono in ogni caso regolati da due elementi: il contratto e i rapporti di forza. Se c’è un regolare contratto di edizione (e di norma così avviene), anche l’autore di un libro di ricette, di un testo scolastico, di una guida turistica o di un manuale tecnico rimane proprietario dell’opera; ed è lui, firmando l’ultima bozza revisionata, a dare il “visto di stampa” definitivo. Semmai è vero che per la manualistica possono esserci, e hanno il valore di obbligo, delle “indicazioni” preventive da parte della casa editrice: se una collana, poniamo, di guide turistiche prevede per tutti i titoli una determinata scansione in capitoli, paragrafi e sottoparagrafi, e un preciso apparato informativo (box, riquadri, indrizzari ecc), l’autore si dovrà attenere a queste uniformità; ma il testo, i contenuti e la forma sono materia e proprietà sua.
A determinare la quantità dei cambiamenti apportati dalla redazione sono in realtà, più dei contratti, i rapporti di forza tra editore e autore, e oserei persino aggiungere le caratteristiche caratteriali di coloro che sull’opera lavorano. Ci sono editori forti e decisi a imporre un certo modello, e altri deboli o menefreghisti che non hanno voglia e tempo di discutere le scelte dell’autore. Ci sono editor e persino redattori capaci, per energia e competenza, di arrivare a imporre il proprio punta di vista, così come ve ne sono altri intimiditi o superficiali. Ci sono autori famosi, magari supponenti o semplicemente determinati nel difendere la propria opera originaria fin nelle virgole; e ce ne sono di accomodanti, insicuri, arrendevoli. Sono questi elementi, in tutti i generi di editoria, a determinare la quantità di “interventi” redazionali, ad assegnare l’ultima parola, a far sì che il suggerimento dato all’autore venga percepito come noiosa intromissione da ignorare o come “consiglio che non si può rifiutare”. L’opera rimane sempre proprietà intellettuale del suo autore, ma può essere stata profondamente rimaneggiata, talora persino snaturata, in ragione di questi rapporti; la firma finale dell’autore, in ogni caso, è indispensabile e certifica l’accettazione dei pochi o tanti cambiamenti apportati. (Poi ci sono le eccezioni, come quando mi capitò, da consulente per un grande editore di testi scolastici, di baccagliare per mesi con un’autrice importante, una alla quale “non si potevano toccare neanche le virgole”, per convincerla che non poteva scrivere che “i pilastri dell’Islam sono quattro”, invece di cinque, per il solo motivo che lei, non si sa con quale autorità, riteneva che la professione di fede in Allah, in quanto appunto professione e non precetto, non poteva essere considerata un “pilastro”, come invece è per oltre un miliardo di musulmani. Nel caso, concordai con l’editore una correzione postuma, in una fase di revisione tecnica, e modificai il testo ripristinando i “cinque pilastri”; con l’editore pronto ad assumersi ogni rischio di causa con l’autrice, con certezza di vincerla, per un aggiustamento che rimediava un’asinata oggettiva. Ma, anche in editoria scolastica, o tecnica, si tratta appunto di eccezioni che vanno contro le regole e gli accordi.)
Fin qui, dunque, potrei concludere semplicemente che i vari generi di editoria si assomigliano, e che “interventi” o “suggerimenti” sono termini in realtà affini, la cui reale consistenza dipende dalla percezione soggettiva delle parti in causa. Per Autodafé, però, non è così. O, meglio, sarebbe riduttivo metterla semplicemente su questo piano.
Gli autori che lavorano con noi sanno, a priori, che dei cambiamenti verranno apportati e degli interventi ci saranno. Certo, con il loro consenso. Ma la redazione non si limita a dare dei suggerimenti e lasciare all’autore il compito di “migliorare” parti che non convincono, ma interviene proponendo ed esemplificando le sue osservazioni.
Ci sono, ovviamente, alcuni interventi che vengono apportati dall’autore, dopo discussione con la redazione. Penso ai casi di intere digressioni cancellate, trame ridisegnate, punti di vista rigirati, finali cambiati radicalmente: tutte situazioni in cui all’editor spetta il compito di illustrare cosa non convince, discuterne con l’autore, fornire alcuni possibili suggerimenti e demandare infine all’autore stesso il lavoro di riscrittura.
Ma ci sono altre situazioni in cui è meglio procedere diversamente. Può capitare che un autore litighi con la punteggiatura, o che abbia un lessico non sempre felice e adeguato ai personaggi, o che abusi di soluzioni grafiche come se scrivesse un’opera di manualistica (per esempio rafforzando col corsivo ogni parola cui vuole dare evidenza e intonazione, fino a venti o trenta corsivi per pagina), o che le scansioni e le separazioni non aiutino il lettore (per esempio nel passaggio da un narratore a un altro, o quando la narrazione avviene su diversi piani temporali). In questi casi, la redazione discute in linea generale le problematiche con l’autore, ma poi ha poco senso chiedere all’autore stesso di rivedere la punteggiatura, se quello non è il suo forte. Preferiamo intervenire, cambiare, e sottoporre poi all’autore l’esito finale del lavoro redazionale, lasciando a lui il giudizio finale sul miglioramento o meno dell’opera.
Formalmente si può anche dire che non cambia molto, ma nella sostanza sì. E il lavoro di squadra tra autore e redazione, in cui i suggerimenti prendono forma concreta e si traducono in proposte di cambiamento, è una modalità operativa che teniamo molto a difendere e sottolineare (e che è cosa ben diversa dal riscrivere un’opera tenendone per buono il solo scheletro). Finora, fra l’altro, con riscontri del tutto positivi.