mercoledì 2 novembre 2011 di Michele Scarpinato
“Il lavoro rende liberi” questa frase capeggiava paradossalmente sui campi di concentramento tedeschi in cui gli ebrei, zingari, omosessuali e oppositori del governo venivano “concentrati” come pomodori, uniformandoli nel fisico (vestendoli uguali, rasandoli a zero, lasciandoli deperire) e nell’anima e ridotti alla schiavitù. Nonostante la schiavitù, la loro condizione comune li rendeva forti per continuare a sperare e andare avanti, per non fare quell’unica altra scelta che clandestinamente potevano concedersi, il suicidio.
Alla luce di ciò, la condizione comune dei lavoratori in un certo settore crea in loro quella che i marxisti chiamano “coscienza di classe” che prospetta loro forme di libertà estreme e li nobilita all’interno della società che ha come ideale quello della produzione.
I lavoratori riuniti, coscienti del loro ruolo, sanno quindi di essere parte fondamentale del processo che muove la società, per un verso produttori, per l’altro consumatori.
Nel secolo che va dalla seconda metà dell’ottocento alla prima metà del novecento, in cui la dottrina marxista aveva una forte presa sotto le varianti dei socialismi e dei comunismi, gli operai delle fabbriche condividevano, come i soggetti rinchiusi nei campi di concentramento, di essere una classe, di avere condizioni di vita comuni, stessi orari, stesso posto di lavoro e magari di abitazione, stesso salario e stesse prospettive di vita. La vita della maggioranza degli uomini era ancora legata alla vita come lavoratore, le due cose coincidevano. Solo se lavori puoi vivere.
La “coscienza di classe” è stato uno strumento molto importante per la rivendicazione della dignità dei lavoratori anche come singoli individui, che, unitisi in associazioni sindacali, hanno posto in essere azioni di critica verso il sistema capitalista-borghese che non ripagava adeguatamente l’anello forte della produzione. La coscienza di classe ha messo veramente in discussioni alcuni sistemi politici e, in alcuni casi, sovvertito l’ordine sociale di interi stati.
Essendo uno strumento molto potente, l’egoismo insito negli uomini assetati di potere lo hanno utilizzato per strumentalizzare la popolazione di lavoratori accrescendo nuove caste come i partiti e i sindacati che si contrapposero alle vecchie.
Nella storia occidentale abbiamo solo dei rari casi in cui le nuove caste sorrette con convinzione dal popolo sopravvalsero sulle caste conservatrici e, anche laddove successe, vennero logorate dal potere o sbatterono il viso contro il duro muro della realtà che faceva crollare ogni idealismo ideologico.
Per evitare che la storia si ripetesse, organizzazioni parastatali internazionali hanno diffuso idee politiche per lo smantellamento del sistema che rende i lavoratori nobili tramite il lavoro e inventandosi il sistema della mobilità e della flessibilità.
Non sto parlando di fantomatici complotti fatti in stanze sotterranee e oscure, seduti intorno a una tavola rotonda e con dei cappucci in testa, ma sto parlando di cose concrete come le logge massoniche come la P2 che aveva come programma l’indebolimento dell’istruzione, la persuasione tramite i canali di comunicazione di massa come la televisione, cose che oggi vediamo quasi concretizzarsi.
Come fare quindi a distruggere lo strumento “coscienza di classe” senza distruggere il lavoro, cioè la produzione? Distruggendo prima di tutto il concetto di classe, fomentando sempre di più l’ego individualista degli uomini che non il lavoro di gruppo, questo a scuola come sul posto di lavoro. Si premia l’alunno dell’anno, non la classe; si premia l’impiegato dell’anno, non il reparto. Si specializza il lavoro parcellizzandolo in tante figure individuali che per conoscere uno che ha il tuo stesso ruolo spesso devi cercarlo nell’azienda concorrente; si diversifica così anche il salario o, se non vogliamo essere troppo marxisti, diciamo lo stipendio. La diversificazione dello stipendio e dei ruoli porterà così a creare differenze tra i lavoratori delle aziende anche a partire da fattori semplicemente estetici come l’abbigliamento o la cura degli spazi di lavoro.
Tutto ciò però non basta, la produzione non può essere così parcellizzata da non formare completamente uniformità nei ruoli o nelle condizioni di vita aziendali; in un modo o nell’altro si crea una coscienza che non è di classe, forse, ma comunque sociale: sono tutti dipendenti della stessa azienda.
Quindi il prossimo passo è non avere dipendenti fissi. Intortando il nuovo modello come un modello che negli USA funziona benissimo, ci mostrano il sistema di lavoro flessibile che, nonostante sia in contraddizione con il mantra delle specializzazioni, permette agli individui di avere una certa mobilità nella scala sociale, oggi facendo un lavoro, domani facendone un altro. Comunque lavori, comunque puoi mangiare e pagarti le rate dell’Iphone. Peccato che non funzioni così, perché anche negli USA stessi, dove le mobilitazioni sociali legate al mondo del lavoro sono veramente rare, se un giorno pensi di contare su uno stipendio e ti metti dei debiti, quando cambia il tuo lavoro e il tuo stipendio, non ti cambiano i debiti, quelli li devi onorare comunque, sia che il tuo stipendio sia aumentato che diminuito.
Figuriamoci l’importazione di un modello nato su basi sociali e culturali completamente diverso e possiamo dire anche nuovi, in un sistema come quello europeo pieno di tradizioni sociali e culturali, ma anche di poteri.
Oggi la vita dell’uomo non coincide più con quella del lavoratore e se da una parte ciò ci rinfranca, dall’altra ci incula (scusate il francesismo). Oggi lavorare e vivere sono due piani così differenti che, oltre a sopravvivere la casta di chi vive senza lavorare, se ne è formata un’altra: quella del lavoratore povero, che nonostante lavori, riesce a sopravvivere.
Oggi non abbiamo più dei colleghi di lavoro con cui legare, abbiamo un magma di persone che continuiamo a chiamare colleghi, ma sono persone con cui lavorerai solo un paio di mesi, finché il contratto a tempo determinato non scade.
Viene così a nebulizzarsi la classe dei lavoratori che non riescono a riconoscersi come compagni per una lotta contro il sistema che li opprime. Il lavoratore precario ha una vita precaria, senza stabilità per la costruzione di progetti per rivendicare il suo futuro. I sindacati, che dovrebbero studiare il mondo del lavoro e prevederne il futuro, invece, arrivano troppo tardi e solo dopo dieci anni cominciano a creare associazioni di lavoratori precari diversificati per aree di produzione.
Se Marx fosse ancora vivo o per lo meno lo fosse ancora qualche marxista, inciterebbe i lavoratori precari a riprendersi quello strumento fondamentale che è la coscienza, la coscienza di classe precaria, con il grido “Precari di tutto il mondo unitevi!” (eggià, i precari non possono neanche permettersi una prole!).