La nostra società, proponendo e promuovendo una concezione utilitaristica del lavoro, ha impoverito la persona di quella fondamentale esperienza quale appunto la dimensione lavorativa. Un tempo i bimbi dicevano: io da grande farò….; oggi dicono: io da grande avrò…
Pensando al benessere non possiamo prescindere da quelle esperienze di vita che costituiscono “le fondamentali” dell’individuo quali ad esempio: i propri affetti, la sofferenza, la malattia, l’appartenenza geografica, il gruppo sociale ed il proprio lavoro. Consideriamo il lavoro dal punto di vista dell’uomo quale “essere capace di lavoro” in quanto è, questi, l’unica forma di vita a cui è concesso tale privilegio. Se distinguiamo, nel valore del lavoro, le componenti intrinseche non possiamo non renderci conto che, esso, è sia di natura etica che di natura economica e dove l’oggetto del lavoro è la persona stessa.
E’ nel lavoro e mediante il lavoro che l’uomo cerca la sua realizzazione, la sua crescita, il compimento delle sue vocazioni professionali, realizza la costituzione dei suoi rapporti sociali, promuove il bene comune, crea le tendenze ed appartiene alla vita degli altri contribuendo alla tessitura di quella fitta rete di scambi fattivi e significativi, sia sul piano umano che su quello materiale, che andranno a costituire la cultura d’appartenenza, intesa come modo squisitamente umano di abitare il mondo. Ponendoci dall’ottica del valore etico del lavoro, a godere del quale ognuno avrebbe diritto, ogni lavoro ha come scopo la persona che lavora non solo come essere complesso, intelligente, razionale, affettivo ed emotivo, ma anche come micro- particella dei macro: famiglia. società, nazione etc. L’uomo appartiene al suo ambiente come l’ambiente appartiene all’uomo, il benessere del singolo diventa benessere di tutti e viceversa. Data l’attuale condizione del nostro mondo del lavoro, è opportuno sviluppare un atteggiamento critico nei confronti di una cultura ed un sistema sociale che valorizza esasperatamente solo gli aspetti utilitaristici di esso, per altro affatto garantiti alla persona. In una cultura e struttura sociale affannata, in crisi ed incapace di auto ripararsi la temperatura tende a salire e molte persone propendono per realizzare l’utile evitando addirittura il lavorare. Ciò nonostante l’uomo, nelle sua natura complessa, agogna la gioia di vivere, avverte il bisogno di appagare se stesso, attraverso se stesso, coadiuvato dalle connaturate nobili esigenze di realizzare l’utile, il bello e il buono nel proprio lavoro grazie ad una spinta interiore che ricerca la magnificenza dell’esistere.
Nel lavoro, e soltanto nel lavoro, quando l’utile si unisce al bello ed al buono l’uomo crea la “meraviglia” e scopre il senso della sua vita. Esperienza, quest’ultima, mortificata e scimmiottata da una cultura dell’apparire attraverso l’avere. E’ grazie ad una sana e responsabile educazione al lavoro, che pone l’uomo come oggetto del suo stesso fare, che si rende possibile il raggiungimento dei buoni obiettivi. Da un esame generale evince che la nostra generazione di adulti risulta incapace di educare le giovani generazione ed incapace di uscire dalla concezione mercantilistica ed utilitaristica del lavoro da cui l’incapacità di educare e formare i giovani all’”essere nel fare”, ma anche l’ incapacità di aprire loro un futuro degno delle loro naturali potenzialità di comprendere e godere la grandezza, appunto, del proprio “ essere” attraverso il proprio“fare” e nel fare.
Dott.ssa Elisabetta Vellone