“(… ) Se il potere esecutivo ha preso da tempo il posto di quello legislativo in quanto sede della decisione politica, più recentemente al suo interno è cresciuto inequivocabilmente il potere del suo capo. La centralità acquisita dal leader nei processi elettorali e governativi non appare reversibile. Il leader è arrivato fin qui per rimanerci.(…) La forza del leader e quella del suo esecutivo dovranno trovare il loro corrispettivo nella forza delle istituzioni incaricate del loro controllo. Tali istituzioni debbono consentire ai leader e agli esecutivi di governare e contemporaneamente debbono vigilare affinché la loro azione avvenga nel rispetto dei diritti dei cittadini, in particolare di quelli che non si riconoscono nella loro politica. I leader passano, la democrazia rimane. I leader possono sbagliare, la democrazia non può permettersi di farlo. Insomma, la buona democrazia abbisogna di leader (donne, e non solo uomini) che sappiano <<mettere le mani negli ingranaggi della Storia >>, come diceva Max Weber ai suoi studenti quasi un secolo fa, ma deve anche preoccuparsi che lo facciano per migliorare, e non per peggiorare, il suo procedere (…). Ecco perché è tempo di elaborare una cultura politica del governo democratico adeguata alle nuove sfide che quest’ultimo sta affrontando”.
Brano tratto dal libro ADDOMESTICARE IL PRINCIPE – Perché i leader contano e come controllarli – di Sergio Fabbrini
Perché questo brano? Perché forse il momento lo richiede e perché forse tentare di riflettere sul potere del leader in una democrazia non guasta mai.
Ma chi è il leader democratico in una democrazia? Egli è generalmente un leader con responsabilità di governo oppure un leader politico impegnato ad acquisire una posizione di governo.
Se è vero che i leader esercitano un ruolo necessario nelle democrazie, è anche vero che l’esercizio di tale ruolo non è immune da pericoli. Non è un caso che i paesi, come quelli europei, che hanno registrato esperienze autoritarie nel loro passato siano particolarmente sensibili a tali pericoli. Infatti, se si guarda alla storia d’Europa si noterà che è piena di esempi di leader che hanno abusato, o hanno cercato di abusare, del loro potere per alterare, o per cercare di alterare, la natura del governo politico.
Per questa visione, la democrazia, più che governo del popolo è (o deve essere) governo delle leggi. Come disse Max Weber nella sua lezione del 1918 sul tema della politica come professione: <>.
Non esiste, in fondo, una definizione condivisa di democrazia plebiscitaria. Forse, in fin dei conti, è quella democrazia che affida il potere a un capo (e solo a lui), in quanto quest’ultimo è stato eletto su una base personale (ed esclusivamente personale), benefica di una fiducia personale (che nessun altro può condividere), esercita il potere in modo personale e, quindi, personalmente rende conto agli elettori. In questa democrazia, sul versante di chi esercita il potere, non ci sono altri attori o istituzioni al di fuori del leader e, sul versante di chi legittima il potere, non ci sono gruppi o partiti ma il popolo (al singolare). Nondimeno, un leader democratico personalizzato che, in nome della propria popolarità, è insofferente verso le istituzioni e le procedure proprie dello stato liberale (come la magistratura e le procedure giudiziarie, la presidenza della repubblica, la corte costituzionale) costituisce, di per sè, un serio campanello d’allarme per lo Stato e per l’intera società.
Certo, nell’era in cui il potere dei mass media (televisione, giornali ecc. ecc.) è molto forte, il rapporto fra il leader in una democrazia e questi ultimi non può che giocare a favore del leader in quanto egli può servirsi di essi per propagandare e consolidare la propria visione di potere personale (e così avviene spesso, soprattutto da qualche anno a questa parte in Italia). In una società, perfino democratica e occidentale, è ancora talvolta difficile accettare dei cambiamenti radicali. I pregiudizi, i preconcetti, la carenza di una mentalità flessibile persistono sempre, per cui se il leader vuole cambiare o rivoluzionare, tutto e subito, a volte svecchiare e snellire, dare un’immagine diversa e meno protocollare di se stesso, del suo modo di apparire e di rapportarsi piovono critiche pesanti o leggere, pedanti o faziose da ogni parte.
Se, invece, il leader se ne sta “al suo posto” senza cambiare mai nulla e nemmeno appare in pubblico tanto da sembrare inesistente lo si accusa, all’opposto, di essere una specie di “dinosauro” che vive ancora in una remota era antidiluviana. Quale sarebbe l’ideale allora per riuscire a mettere d’accordo un po’ tutti e per un modo di governare che sia, appunto, ideale?
Forse non è possibile nella realtà e nella prassi politica l’incarnazione dell’ideale. Non è mai stato possibile. Niccolò Machiavelli, in pieno periodo rinascimentale, con la sua opera IL PRINCIPE ha tentato di capire il problema e si è come “illuso” di vedere realizzato il suo ideale di governante nella figura di Cesare Borgia. Nei secoli a venire, furono molti i pensatori e gli intellettuali che hanno portato avanti questa o quella visione di principe o di leader “illuminato” a cominciare da Voltaire, D’Alembert, Rousseau. Visione, a dire il vero, sempre ideale e mai veramente possibile nella realtà. Ancora oggi, credo, che la questione rimane aperta; più che mai nelle democrazie occidentali dove essa è sempre più spinosa, complessa e sfugge quasi di mano.
Forse solo una cosa, in fin dei conti, sembra sicura e cioè che il governare è un’arte e che il leader di turno, come l’artista nel suo campo specifico, deve saper trarre ispirazione e saper (e sottolineo saper) creare l’opera d’arte.
Un leader di governo mediocre e un poeta o un pittore mediocre non fanno altro che ingannare il popolo o i fruitori della loro opera, ma soprattutto se stessi. Max Weber, sempre nella sua lezione del 1918, si chiedeva e chiedeva: <>
Impedire l’ascesa del leader è forse sbagliato e irrealistico. Addomesticarne l’ascesa è sempre possibile, prima ancora che necessario.
Francesca Rita Rombolà