Magazine Cultura
Anno: 2009 Editore: Einaudi, collana Stile Libero, 2011 Traduzione: Eva Kampmann Pagine: 767, brossura ISBN: Euro: 21,00
Le prime vittime sono due donne, ritrovate con ventiquattro ferite identiche in bocca, morte soffocate dal loro stesso sangue, dopo sofferenze atroci. La polizia di Oslo sa di avere un solo uomo che possiede la capacità di risolvere il caso, e cioè il commissario Harry Hole, fuggito ad Hong Kong per guarire le ferite psicologiche profonde infertegli dall'ultimo caso risolto, quello dell'"Uomo di Neve". Tra le vittime non sussiste apparentemente alcun legame, ma Hole ne trova uno: tutte quante hanno trascorso una notte in uno sperduto rifugio di montagna.
Non c'è niente da fare. NesbØ è bravo. E' capace di allestire scenari immaginifici improbabilissimi quanto "veri" sul piano dell'intrattenimento narrativo. Ti inchioda alle sue pagine come mosca intontita sulla carta moschicida, e tu sei comunque felice di stare appeso su quella carta giallognola e collosa, senza batter ciglio, finchè giunge a liberarti l'ultima pagina (la settecentosessantasettesima!) che chiude un cerchio lungo quanto tormentosamente coinvolgente. Il tormento deriva anche dalla scelta, molto umana, molto sofferta, da parte dello scrittore norvegese, di innestare sul plot centrale, molte ramificazioni narrative, in primis quella della lenta agonia del padre di Hole, malato terminale ai suoi ultimi giorni terreni. Come scrivevo nella recensione al penultimo libro di NesbØ, "Il leopardo" possiede il pregio di virare la coloritura narrativa verso un horror temperato dalla logica thriller-noir che sottende come al solito, tutta l'architettura del testo. Le prime pagine sono degne di un Ketchum, così freddamente descrittive di una vittima di tortura operata attraverso la mefistofelica "Palla di Leopoldo", strumento di sevizie africano, che ben avrebbe potuto ispirare un saggio regista di genere. Anche le location congolesi e africane in genere, permettono al lettore di sentire brividi freddi dietro la schiena, mentre seguiamo i protagonisti lungo le strade sterrate di Goma, teatro degli efferati eccidi avvenuti non molto tempo fa tra le etnie Utu e Tutsie. La narrazione di NesbØ non lascia scampo dipingendo particolari trucidi di quella insensata carneficina africana, pur mantenendo viva una pietas nei confronti di quel senso di impotenza, di quella freudiana hilflosigkeit di cui tutti siamo, volenti o nolenti, originariamente portatori. Ciò che differenzia "Il leopardo" da altre opere di NesbØ, e che lo rende a mio parere il suo romanzo più maturo, è propriamente il posizionamento geograficamente "eccentrico" rispetto alle altre storiei, che sono e rimangono molto nordic. Qui invece il norvegese genera un incipit horror per poi spostare subito il baricentro nei suburbi di Hong Kong , dove troviamo un Hole completamente perduto, un Orlando Furioso abbandonato sulla sua Luna, preso dentro una spirale tossica che lo rende sfuggente ad ogni stereotipo di "eroe" da romanzo giallo qualsiasi. Hole sembra infatti l'esatta antitesi dello stereotipo narrativo del detective anglosassone o statunitense, cioè il contrario di un Nero Wolfe o di un Tenente Colombo. La "logica" di Hole non è quella del classico investigatore che siamo abituati a seguire nelle nostre letture di thriller. La logica di Hole è una logica animale, fatta di annusamenti, intuizioni sedimentate dall'esperienza, di sfumature e "illuminazioni" improvvise quanto assolutamente insensate alla luce di una buona logica aristotelica. In questo Hole è più vicino al commissario Adamsberg di Fred Vargas che all'Harry Bosch di Michael Connelly, solo che Hole è e rimane un eroe malato, che non si fa amare, neppure dal lettore più affezionato. E questo lo rende, almeno a me, molto simpatico, perché si pone come soggetto libero, anticonformista in senso alto e addirittura filosofico. Come negli altri romanzi, NesbØ non disdegna un certo esibizionismo, un certo uso del birignao narrativo, costruendo situazioni impossibili (come tutta la lunga sequenza della valanga che si abbatte sul rifugio di montagna; oppure come il procedimento a matrioska con cui è organizzata l'agnizione finale del vero colpevole; oppure la parte finale che ha come protagonista nientemeno che il pericolosissimo vulcano congolese Nyiragongo). Ma ancora una volta (e vi confesso che non so spiegarmi razionalmente il perché), NesbØ si fa perdonare le sue giravolte virtuosistiche, al limite del richiamo alle gesta del James Bond di Fleming. Alcune note negative sono tuttavia presenti nell'opera di NesbØ, e certamente le segnalo: la costruzione psicologica di alcuni personaggi non convince appieno, per esempio quella della collega di Hole, Kaja, che sembra introdotta come un deus ex machina poco caratterizzato e semplicemente funzionale all'andamento della storia. Anche il ruolo di Belmann, temporaneo collega nemico di Hole, e proveniente dalla polizia criminale di Oslo (la famigerata Kripos), non rimane molto nella mente di chi legge, nonostante abbia imperversato lungo il corso di tutte le 767 pagine del libro. Ottima invece la modalità con cui NesbØ delinea la figura dell'assassino, un personaggio davvero diabolico, perfido, assolutamente "cattivo" fino al midollo. "Il leopardo" segna un punto fondamentale nella parabola poetica dello scrittore norvegese, parabola densa di luci e di ombre, come abbiamo segnalato più volte attraverso queste recensioni. In quest'ultimo caso assistiamo invece a un punto luminoso, generatore di lapilli stilistici, come quelli che si alzano dal vulcano Nyiragongo in eruzione. Da leggere.
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