Nessuno avrebbe avuto niente da eccepire se il volume delle “Cronache di Norimberga”, ovvero il “Liber chronicarum” fosse iniziato così: “C’era una volta, in paese lontano, una serie di colline che si stendeva a perdita d’occhio coprendo la linea dell’orizzonte, mentre il sole, alto, riusciva a penetrare le nuvole cupe minacciose che incombevano su città e campagne. Ma, anche se da lontano, i tetti sfavillanti e le imponenti mura ci annunciavano, ancor prima dei suoni di un popolo al lavoro, l’avvicinarsi al termine del viaggio che ormai aveva stancato gli uomini, fiaccandone lo spirito, per le notti fredde squarciate da gelidi lampi che davano all’animo il brivido della paura contro l’ignoto che sembrava scatenarsi, senza fine, scacciato solo al mattino al sorgere del sole….”. In realtà il “Liber Chronicarum”, conosciuto nella sua versione originale con il nome di “Schedel’sche Weltchronik”, ovvero “le cronache del mondo di Schedel”, scritto dal filosofo tedesco Hartmann Schedel in latino e stampato nel 1493, è praticamente una storia del mondo che prende ampio spunto ed ispirazione dalle vicende bibliche e che nei sette grandi capitoli di cui si compone, chiamati “età”, narra della storia del mondo dalla creazione fino al 1490, oltre ad una ultima età ove si prefigura la fine del mondo ed il giudizio universale.
Come dire che la profezia prossima ventura di origine Maya, riguardante il nostro prossimo anno non è invenzione americana ma anzi, era pratica ampiamente diffusa in tutto l’umanesimo medievale europeo, oltre che per le date, anche per le modalità di accadimento, che, nella fattispecie, in perfetta ortodossia biblica, erano senza dubbio da temersi per quell’universale giudizio che avrebbe alfine posto rimedio al peccato primordiale del quale l’umanità, quella cristiana almeno, porta addosso il peso (in realtà l’utilizzo delle “sette età del mondo”, deriva da una periodizzazione cristiana della storia che risale ai primi scritti di Sant’Agostino nel 400 a.C., scritti che appunto arrivavano fino a preconizzare intorno all’anno 1000, la data in cui sarebbe finito il mondo con la settima età, quella del Giudizio Universale).
Ciò che rende questo volume un autentico tesoro non è tanto il contenuto e le teorie esposte, molto spesso infarcite di credenze, teorie e preconcetti che tutto hanno meno che di cronachistico, volendo in questo termine parafrasare il lavoro di un medievale giornalista (vedi ad esempio la “Nuova Chronica” di Giovanni Villani), quanto proprio l’incedere spesso nel fantastico, che risolve ogni dubbio ed ogni zona oscura con l’immaginazione tanto da renderlo una sorta di fiaba, ove tutti, umani, animali, piante e territori, vengono di volta in volta a creare un rapporto simbiotico ed antropomorfo con la vicenda, assumendo fattezze e modi di ciò che viene narrato, ora farsa, ora tragedia, ora guerra, ora pace. Scorrono così i secoli fino ad allora conosciuti con i rispettivi protagonisti, dalla creazione alla fine del mondo, in un avvicendarsi di verità e di invenzioni che ascoltano più l’animo umano, i sogni, perché spesso irrazionali, che non la cruda narrazione dei fatti. Ma l’autore avvertiva che le parole non erano spesso sufficienti a spiegare l’esatta atmosfera che voleva rappresentare, così l’opera si arricchisce di ben 1809 incisioni prodotte su matrici di legno (xilografie), di cui molte realizzate da Albrecht Dürer, al tempo nella bottega di Michael Wolgemut, principale artefice delle incisioni contenute nell’opera stessa nonché uno dei più grandi maestri della xilografia tedesca. Quella che ne emerge è dunque un’opera tra le prime nel suo genere, sia per l’importanza che rivestono le immagini, sia per i caratteri delle stesse che le mostrano lontane da certo spirito grave e in cui un poco tutta l’arte del medioevo era scivolata, specie laddove toccavano temi filosofici e religiosi, apparendo invece giocose, quasi irriverenti come ad esempio nella incredibile danza della morte i cui stili sembrano preconizzare la follia estatica ed onirica di maestri fiamminghi come Hieronymus Bosch, quasi preannunciando quel passaggio, che attraverso l’iperbole dell’allegoria e del fantastico, contribuiranno a ridonare quella centralità all’uomo che era stato rinchiuso tra dogmi, peccati mortali e una vita di insormontabili stenti.
In questa cornice fosca e gravida di disgrazie ecco che ad esempio tutta la serie delle incisioni delle città ci riaprono l’animo, riportandoci ad ambienti quasi paesani e popolari, dove abbozzi prospettici ce ne mostrano l’arrancare su collinette senza alcun ordine urbanistico se non quello della casualità, incorniciate da acque tranquille ove navi ormeggiate preludono alla calma dopo l’avventura perigliosa del viaggio, dove i fiumi sono popolati da quella moltitudine di piccole realtà che mostrano il daffare giornaliero del pescatore, del trasportatore, in una immobilità quasi da fiaba. Si affaccia dunque l’immagine di un mondo sognato, idealizzato e trasformato in quella oasi di serenità che nulla mantiene di una realtà, che ben diversamente, parla di scontri tra signorie, principati, feudi e, di lì a breve, proprio partendo da quelle stesse terre di Germania, devasterà villaggi e campagne nelle rivolte contadine che cercheranno di cavalcare l’onda rivoluzionaria di Lutero. Anche questo un aspetto che coglie impreparati.
L’assoluta mancanza di un contado, di una vita agricola, di quell’industria agreste che, al tempo, era l’unica, oltre la caccia, cui poter affidare il sostentamento di servi e padroni. Lontane dunque anche le allegorie di quel trecento illuminato che ritrovavamo nell’ “Allegoria del buon governo” del Lorenzetti o di altri partecipi protagonisti della feconda età delle arti e dei mestieri della Toscana dell’epoca. Oltre tutto tali mappe cittadine - che d’altronde sono dello stesso stile di quelle regionali, ove Francia, Prussia, Turchia, Sassonia, Westfalia ed altre vengono rappresentate come idiallici presepi - mancano quasi completamente della presenza umana se non in rare e comunque marginali apparizioni, a tutto vantaggio del valore architettonico e paesaggistico delle raffigurazioni. Uno stile contrastante con le vicende umane e con le rappresentazioni delle stesse, come se la natura, gli oggetti inanimati, fossero del tutto avulsi dalle tribolazioni delle humanae genti le quali, nella lotta contro il male, il soprannaturale malvagio e demoniaco, appartenessero ad un mondo che non avrebbe comunque potuto scalfire e indebolire la bellezza e la pace della natura delle cose. In ciò era già stata una sorta di implicita avvisaglia la raffigurazione del quinto giorno della creazione nel primo libro, là dove la natura, come in una miniatura dalla delicatezza orientaleggiante, si mostra in tutta la sua varietà e bellezza, inglobando in questa meraviglia anche la naturale legge della sopravvivenza per la quale il rapace che colpisce sembra quasi passare inosservato, senza niente turbare dell’insieme. Ben altri i toni e le sofferenze nelle umane rappresentazioni. Là si evidenzia la paura dell’inconosciuto, dell’orribile, di quella parte mancante di conoscenza dove dottrine, velleità di potere e talvolta oneste fedi, avevano colto a piene mani per piegare il volere dei semplici, cercando così di render loro ragione di una vita di stenti, alimentandone le paure più profonde dalle quali solo con taluni atteggiamenti ed osservanze avrebbero potuto trovare scampo. Era in realtà il limite della conoscenza di allora, che alla propria inadeguata ignoranza cercava di ottemperare con la fantasia per mantenere lo status di scienza agli occhi dei più. Resta il mistero di queste città illuminate da una irreale atmosfera di composta tranquillità, di quel fiabesco presentarsi dove ancora le proporzioni e le prospettive rispondono solo alle regole dell’animo e dove la natura circostante concorre con il verde della sua quasi eterna primavera.
L’originale delle “Cronache di Norimberga”venne inizialmente stampato soltanto in nero, le copie successive avrebbero poi presentato le immagini colorate, procedimento che veniva eseguito dopo la stampa, a mano. Anton Koberger, lo stampatore, aveva commissionato le incisioni a partire dal 1487. I blocchi di legno, ovvero le matrici delle stesse, misuravano la bellezza di 342x500 millimetri ogni pagina doppia, rappresentando così anche per il formato un’opera senza dubbio unica. Ne seguì successivamente, data la richiesta incredibile che vi fu, anche una edizione in latino, oltre all’allestimento di una sorta di servizio di consegna a domicilio che, a detta dello stampatore, sarebbe avvenuta entro e non oltre quindici giorni … in tutta Europa!