di Angelo Brasi. Qualcuno sostiene che la disoccupazione nel nostro Paese potrebbe essere facilmente risolta qualora i nostri giovani italiani accettassero alcuni lavori cosiddetti “umili”. Il nocciolo principale del problema però è che di lavoro, nel nostro Paese (e non solo) ce n’è decisamente poco. Basta osservare i dati statistici per rendersene conto e la situazione risulta pressoché identica in buona parte dei paesi del mondo “occidentale”. Al contrario quelle nazioni che una volta venivano considerate “in via di sviluppo”, come Cina ed India, viaggiano con dei Pil elevatissimi da diversi anni. E non è neanche vero che la globalizzazione ha diminuito la fame nel mondo in quanto in Africa la situazione continua a peggiorare e solo alcuni scaltri popoli orientali hanno approfittato di questa situazione. Al fine di una aderente disamina di quello che sta accadendo, bisogna cercare di comprendere come si è determinata tale circostanza. Già da una ventina di anni a questa parte si è cominciato a parlare in termini entusiastici di “globalizzazione”, intendendo con questa parola riferirsi ad un libero mercato mondiale di merci e servizi. In effetti, invece, a trarre vantaggi da tale situazione sono state solo alcune grandi industrie occidentali che (con poca lungimiranza) hanno portato le loro fabbriche in posti dove la manodopera costava molto di meno e con maggiori guadagni, quindi, per gli industriali stessi (chiaramente, a scapito dei lavoratori interni alla nazione stessa). I cosiddetti (o più precisamente alcuni) “paesi in via di sviluppo”, non hanno, però, accettato di tornare ad essere “colonizzati” come un tempo ed hanno cominciato ad incrementare, autonomamente, la loro produzione industriale. In un mercato globale i loro prodotti, con prezzi estremamente concorrenziali, hanno iniziato ad invadere il mondo. E questa situazione si verifica in modo sempre più accentuato. Va da sè che certi prezzi così al ribasso, sono possibili solo con salari “da fame” e magari con lavoratori minorenni con scarsa assistenza previdenziale, condizioni di lavoro poco igieniche, ecc. Come fanno, in queste condizioni, i nostri giovani a trovare lavoro? Non si vuole in questa sede tornare al vituperato protezionismo, né creare nuovi dazi doganali ma quando non esistono regole certe di concorrenzialità è indispensabile muoversi in una certa direzione. Neanche si vuole tornare a razzismi di sorta: i popoli del mondo, di qualunque etnia possano essere, sono uguali e tutti hanno diritto di vivere e, se possibile, anche di migliorare la propria condizione di vita. Anzi si può tranquillamente osservare che le immigrazioni rappresentano una ricchezza per paesi con un’età media elevata come il nostro, per il fatto, appunto, che un inserimento di giovani stranieri in una popolazione di anziani serve pure a riequilibrare i conti previdenziali. La cosa più importante e più urgente è impedire l’ingresso, più o meno clandestino, di merci provenienti da paesi ove il costo del lavoro è fuori mercato. I maggior porti italiani ormai sono pieni di navi che scaricano, di continuo, un numero impressionante di conteiners stracolmi di merci provenienti dai paesi orientali e tutte le città ed i paesi d’Italia non sono altro che uno smisurato mercato ambulante. Concludendo, per far in modo che i nostri giovani trovino un lavoro, è innanzitutto indispensabile, come accennato, che gli stessi si mettano in concorrenza con gli stranieri immigrati per lavori umili (è una favola che i paesi progrediti, come il nostro, possono cavarsela con produzioni di “qualità”: in poco tempo gli orientali riescono sempre a copiarci ed a fare meglio di noi; oltretutto a costi inferiori). Nel contempo nei paesi come l’Italia ove, notoriamente i controlli, in tutti i campi, non sono estremamente precisi, occorrerebbe, per “rinvigorire” la produzione industriale, far in modo che venissero regolamentate le importazioni di merci dai paesi extra U.E. Un po’ come avviene in Germania ove l’ingresso di tali merci risulta soggetto a regole precise per cui il prezzo di mercato è decisamente superiore ed in pratica si avvicina molto a quello ordinario delle merci provenienti da canali ufficiali. Si tornerebbe in tal modo ad un mercato operante in una sana concorrenza. Si avrebbe, inoltre, una auspicabile diminuzione di questa continua e triste chiusura di fabbriche nel nostro Paese e ci sarebbe quindi più lavoro per i nostri giovani che attualmente, per i motivi sopra citati, appaiono piuttosto depressi.
Magazine Politica Italia
di Angelo Brasi. Qualcuno sostiene che la disoccupazione nel nostro Paese potrebbe essere facilmente risolta qualora i nostri giovani italiani accettassero alcuni lavori cosiddetti “umili”. Il nocciolo principale del problema però è che di lavoro, nel nostro Paese (e non solo) ce n’è decisamente poco. Basta osservare i dati statistici per rendersene conto e la situazione risulta pressoché identica in buona parte dei paesi del mondo “occidentale”. Al contrario quelle nazioni che una volta venivano considerate “in via di sviluppo”, come Cina ed India, viaggiano con dei Pil elevatissimi da diversi anni. E non è neanche vero che la globalizzazione ha diminuito la fame nel mondo in quanto in Africa la situazione continua a peggiorare e solo alcuni scaltri popoli orientali hanno approfittato di questa situazione. Al fine di una aderente disamina di quello che sta accadendo, bisogna cercare di comprendere come si è determinata tale circostanza. Già da una ventina di anni a questa parte si è cominciato a parlare in termini entusiastici di “globalizzazione”, intendendo con questa parola riferirsi ad un libero mercato mondiale di merci e servizi. In effetti, invece, a trarre vantaggi da tale situazione sono state solo alcune grandi industrie occidentali che (con poca lungimiranza) hanno portato le loro fabbriche in posti dove la manodopera costava molto di meno e con maggiori guadagni, quindi, per gli industriali stessi (chiaramente, a scapito dei lavoratori interni alla nazione stessa). I cosiddetti (o più precisamente alcuni) “paesi in via di sviluppo”, non hanno, però, accettato di tornare ad essere “colonizzati” come un tempo ed hanno cominciato ad incrementare, autonomamente, la loro produzione industriale. In un mercato globale i loro prodotti, con prezzi estremamente concorrenziali, hanno iniziato ad invadere il mondo. E questa situazione si verifica in modo sempre più accentuato. Va da sè che certi prezzi così al ribasso, sono possibili solo con salari “da fame” e magari con lavoratori minorenni con scarsa assistenza previdenziale, condizioni di lavoro poco igieniche, ecc. Come fanno, in queste condizioni, i nostri giovani a trovare lavoro? Non si vuole in questa sede tornare al vituperato protezionismo, né creare nuovi dazi doganali ma quando non esistono regole certe di concorrenzialità è indispensabile muoversi in una certa direzione. Neanche si vuole tornare a razzismi di sorta: i popoli del mondo, di qualunque etnia possano essere, sono uguali e tutti hanno diritto di vivere e, se possibile, anche di migliorare la propria condizione di vita. Anzi si può tranquillamente osservare che le immigrazioni rappresentano una ricchezza per paesi con un’età media elevata come il nostro, per il fatto, appunto, che un inserimento di giovani stranieri in una popolazione di anziani serve pure a riequilibrare i conti previdenziali. La cosa più importante e più urgente è impedire l’ingresso, più o meno clandestino, di merci provenienti da paesi ove il costo del lavoro è fuori mercato. I maggior porti italiani ormai sono pieni di navi che scaricano, di continuo, un numero impressionante di conteiners stracolmi di merci provenienti dai paesi orientali e tutte le città ed i paesi d’Italia non sono altro che uno smisurato mercato ambulante. Concludendo, per far in modo che i nostri giovani trovino un lavoro, è innanzitutto indispensabile, come accennato, che gli stessi si mettano in concorrenza con gli stranieri immigrati per lavori umili (è una favola che i paesi progrediti, come il nostro, possono cavarsela con produzioni di “qualità”: in poco tempo gli orientali riescono sempre a copiarci ed a fare meglio di noi; oltretutto a costi inferiori). Nel contempo nei paesi come l’Italia ove, notoriamente i controlli, in tutti i campi, non sono estremamente precisi, occorrerebbe, per “rinvigorire” la produzione industriale, far in modo che venissero regolamentate le importazioni di merci dai paesi extra U.E. Un po’ come avviene in Germania ove l’ingresso di tali merci risulta soggetto a regole precise per cui il prezzo di mercato è decisamente superiore ed in pratica si avvicina molto a quello ordinario delle merci provenienti da canali ufficiali. Si tornerebbe in tal modo ad un mercato operante in una sana concorrenza. Si avrebbe, inoltre, una auspicabile diminuzione di questa continua e triste chiusura di fabbriche nel nostro Paese e ci sarebbe quindi più lavoro per i nostri giovani che attualmente, per i motivi sopra citati, appaiono piuttosto depressi.
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