Il libro dei ricordi peduti
di Louise Walters
Autore: Louise Walters
Traduttore: E. De Medio
Serie: //
Edito da: Corbaccio
Prezzo: 16.40 €
Genere: Romanzo
Pagine: 304
Trama: Roberta lavora nella libreria Old and New. I libri per lei hanno un suono e un odore tutto loro e, soprattutto, parlano: raccontano storie che vanno oltre quelle stampate e Roberta ama riporli con cura negli scaffali e raccogliere le foto, le lettere e le cartoline che trova nascoste all’interno di quelli usati. Un giorno il padre le porta una valigia con dei vecchi libri di Dorothea, la nonna di Roberta, e lei trova una lettera firmata dal nonno Jan, che apparentemente non sembra avere molto senso. È indirizzata a Dorothea, che da due anni vive in una casa di riposo, ma contiene elementi che non coincidono con quello che Roberta ha sempre saputo della famiglia del padre. Cercando di dare un senso a quelle parole e all’oscuro segreto che custodiscono, Roberta rivive la tormentata storia d’amore della nonna ai tempi della seconda guerra mondiale senza rendersi nemmeno conto che sta mettendo ordine nella sua stessa vita. Lei, che ama guardare nelle vite degli altri, adesso è costretta a guardare nella propria e ad aprirsi agli altri mettendo a nudo la sua sensibilità, il suo dolore, la sua rabbia. Adesso vuole conoscere la verità, vuole dipanare ogni dubbio e vivere pienamente la propria vita senza la zavorra di cose non dette, passioni mai dichiarate, segreti che possono restare intrappolati dentro di noi.
Questo libro era iniziato malissimo. Apparentemente noioso, tant’è che l’ho abbandonato e l’ho ripreso, più per senso di dovere che per altro, dopo circa quattro giorni. Mi costringo ad andare avanti con la lettura poiché capisco subito che non è una storiella frivola come quelle che ho letto e recensito di recente.
Lo stile più “letterario” dapprima può apparire un po’ pesante da digerire, ma dopo le prime venti pagine passa tutto e resta solo la meraviglia. Una scrittura “vera”, io la definisco così, perché ricorda la vecchia letteratura, o meglio quella intramontabile dei periodi d’oro della cultura. Chi mi segue sa bene che ritengo che ora come ora, in Italia, anche le più grandi case editrice scelgono la moda a scapito della cultura, nessuno ha il coraggio di rilanciare nuovi stili, nuove “storie” che contengano insegnamenti e non solo “viagra” per giovani e non più tanto giovani donnine “arrapate”. Perdonate la mia scurrilità, ma devo chiamare le cose con il loro nome.
Sapete anche che odio il nome Catherine e tutti i suoi derivati Kate, Kat, Kitty e bla bla bla, che va tanto di moda ora nei vari young adult d’oltreoceano e non solo. E in questo romanzo, pensate un po’, la protagonista si chiama Roberta… Solo Roberta. E poi ci sono Sophie, Patricia, Dorothy… Insomma, nulla a che vedere con il meeew, miao, fur fur Kitty. Già questo depone bene.
Non voglio raccontare le vicende del romanzo, ma voglio soffermarmi sulle tematiche principali. La condizione della donna in primis. Sia durante la seconda guerra mondiale che ai giorni nostri. Dorothy sceglie di scappare dall’agiata casa di Oxford, da una vita che non riconosce sua, facendo l’unica scelta che a quei tempi era concessa a una donna: il matrimonio. Eppure non trova ciò che sperava, ma ha la forza a un certo punto di prendere “davvero” in mano la sua vita e viverla.
Dall’altro lato abbiamo Roberta, che pur vivendo in tempi migliori, non è in grado di scegliere nulla. Vive per inerzia senza comprendere ciò che vuole, o forse nascondendolo a se stessa e agli altri per insicurezza, per paura di non essere adeguata. Così gli anni le scivolano addosso e solo una disgrazia riesce a sollevarla dalla palude in cui stava annegando. La descrizione della depressione e della sofferenza di Roberta è trattata dall’autrice in modo egregio. Ritmo incalzante, punteggiatura inesistente, narrazione in prima persona, intima come mai la protagonista fa fino a quel momento.
Roberta sempre distaccata, annoiata e schiacciata dalla vita, inizia il suo declino delirante pensando e parlando con se stessa, ignorando il lettore, mettendo da parte il suo pudore, che tanto l’ha frenata in precedenza. In preda a una febbre delirante, la protagonista ci lascia entrare in quella che è la sua psicologia, e inizi a comprenderla (anche se io una persona così la odierei. Noiosa, pallosa, vittima degli eventi, spettatrice della sua vita).
La differenza tra lei e Dorothea è questa. La prima, la donna moderna, ha bisogno di un dramma e dell’aiuto di un fattore esterno per fiorire e iniziare a vivere. Per la seconda, donna d’altri tempi, è invece un evento positivo a destarla e darle la forza di scegliere. In entrambi i casi però (questa è la mia opinione personale), viene fuori un tipo di donna che a me non piace. Donne che pensano a se stesse sempre dopo a troppe altre cose. E se anche nel caso di Dorothy a primo acchito non sembra così, se si medita un po’ più a lungo ci si rende conto che la sua ossessione per la “maternità” le fa perdere di vista altre cose più importanti, portandola a rinunciare a qualcosa di grande.
Anyway (lasciatemi passare questo inglesismo, si parla di un libro inglese ambientato in terra britannica) il romanzo è di forte impatto. Storie d’amore struggenti ed emozionanti, spaccati di storia raccontati con maestria, personaggi variopinti e reali. Non escluderei che l’autrice abbia in precedenza letto “vita dopo vita” della Atkinson, in alcuni passaggi si respira la stessa atmosfera, ma non c’è nulla di “copiato” o plagiato, solo un sapiente studio di atmosfere e situazioni.
Bene, concludo questa recensione con un sorriso, e confessandovi che questo libro ero così ansiosa di finirlo (una volta superato lo scoglio iniziale) che ho letto fino alle 4:30 del mattino (dopo esser rientrata dal lavoro alle 2:00, sempre del mattino).