Aleksandar Hemon
Il libro delle mie vite
Einaudi, I Coralli
2013
Traduzione di: Maurizia Balmelli
pp. 184
€ 17,00
Il libro delle mie vite di Aleksandar Hemon è un libro che non finisce. È breve. Suddiviso in quindici racconti. Quindici quadri in cui l’autore racconta la sua vita. Dalla nascita della sorella, (Le vite degli altri), alla terribile malattia della figlia di nove mesi (Acquario), passando per la vita a Sarajevo – quando la vita a Sarajevo era ancora spensierata, e lui, Hemon, era poco più di un ragazzo –, la vita a Chicago, con i vagabondaggi in una città molto diversa da Sarajevo, (Saul Bellow aveva scritto che: «Chicago non era in nessun posto. Non aveva collocazione. Era una cosa abbandonata nello spazio americano»). E poi, ancora: la vita dei genitori emigrati in Canada; la vita perduta di Ljubo, compagno di elementari di Hemon, appassionato di scacchi, che cade vittima della schizofrenia e propugna il gioco degli scacchi contrari, dove il fine è di perdere il più in fretta possibile; i primi lavori in una radio di Sarajevo; l’amore per i libri, per il cinema, le recensioni, gli articoli scritti per un giornale di Sarajevo, quando Sarajevo faceva parte, ancora, della Jugoslavia socialista. A fare da contraltare, il primo lavoro a Chicago. Più che altro, sbarcare il lunario: piazzista porta-a-porta per Greenpeace. E lo so che se c’è una parola di cui ho abusato in queste poche righe – mai abusarne, mai abusarne – questa è la parola “vita”. Ma se l’ho fatto, è perché essa è richiamata ossessivamente dallo stesso Hemon. Fin dal titolo. Declinata al plurale. Perché di vite, qui, ce ne sono molte. Perché di vita, Hemon, ne ha spesa, investita, contratta – perché la vita si contrae allo stesso modo di una malattia incurabile: la vita è quello che noi non ci capacitiamo che ci possa essere dato e, allo stesso tempo, sottratto –, perché di vita, dicevo, Hemon ne ha spesa, investita, contratta – vissuta/sofferta – molta.
Nato a Sarajevo nel 1964, Hemon è stato testimone di uno sgretolamento epocale. La fine della Jugoslavia socialista e i primi fermenti nazionalisti serbi. Un mondo sta tramontando, e Hemon lo registra, come fosse un Isherwood di oggi. Serajevo come Berlino. Il libro delle mie vite come Addio a Berlino: «Credendomi un cronista esperto della strada, setacciavo la città in cerca di materiale, registrando dettagli e partorendo idee». E come sempre accade in questi momenti storici, come accadeva per esempio nelle pagine di Isherwood, nell’aura seducente dell’inevitabile catastrofe, quel mondo si veste a festa. È una parata di risate isteriche, di eccessi, e le strade sono affollate giorno e notte. È il grottesco. È l’estenuante, ultimo, disperato tentativo di aggrapparsi alla vita, di assaporarla in pieno, di farne scorta per l’inverno. E non importa se quell’inverno è alle porte, se ne presagiamo il freddo, che viene dalle montagne – carri armati che avanzano inesorabili – noi corriamo, ancora in pantaloncini, fingendoci ignari. E così arriva il 24 gennaio del 1992. Non una data storica. Non ancora. Però il 24 gennaio del 1992, Aleksandar Hemon parte alla volta degli Stati Uniti, per uno scambio culturale, una borsa di studio. Il futuro, egli crede, gli si sta spalancando. Quello che Hemon non sa, che al tempo non poteva sapere, è che: «sarei tornato nella mia città soltanto da visitatore irreversibilmente sradicato». E soltanto cinque anni dopo. Di lì a qualche mese, infatti, inizia l’assedio a Sarajevo. Assedio a cui Hemon assiste da lontano – dall’America, da Chicago, dagli schermi televisivi, dai giornali – impossibilitato a rientrare nella sua terra, nella sua città. Ed ecco allora i vagabondaggi per una Chicago che perde i suoi contorni e nella mente di Hemon si disegnano altre mappe, altre strade: la Sarajevo che era, la Sarajevo che non è più. E quanti palazzi crollati, quante case, quanti amici morti? Si può impazzire così. Neanche nel nostro peggiore incubo possiamo immaginarla una cosa così. Allontanarci dalla nostra città e non potervi fare ritorno a causa della guerra. Guerra che sta distruggendo quanto abbiamo di più caro. La nostra topografia interiore, la mappa geografica dei nostri sentimenti. Ciò che siamo e che qualcuno sta distruggendo. E questa distruzione va in onda su tutti i televisori del mondo, su tutti i quotidiani, amplificando in noi il senso di impotenza, di devastazione. Potrei continuare, perché, appunto, Il libro delle mie vite non finisce mai. Di suggerirci la vita che siamo, e la forza e la bellezza. Nonostante tutto. Nonostante i Karadžić di turno: quei “poeti” nazisti che si macchiano di crimini contro l’umanità; e nonostante i professori di letteratura che, pur amando Shakespeare, pur avendo contribuito a spalancarci ai misteri della poesia, diventano solidali con il regime e «causano la distruzione di centinaia di migliaia di libri» (il rogo, perpetrato dal regime, alla biblioteca di Sarajevo, cui Hemon apprende tramite i giornali e la televisione). Aleksandar Hemon come Roberto Bolaño: dispersi nel mondo che registrano il tradimento, la prostituzione della poesia e di chi si dice poeta; quando invece il poeta sempre dovrebbe restare esposto alle intemperie e non starsene al riparo e a casa dei carnefici.
E con che lingua Hemon ci racconta tutto questo? Non con la sua lingua di origine, ma con l’inglese. Perché egli è sradicato anche dalla sua lingua. Perché forse per essere scrittori è necessario essere sradicati, o quanto meno, sentirsi tali. Perché è da questo stato d’animo che nasce lo sguardo, la voce, il taglio, lo stile. Ed esso ha che fare con la grazia, con la totale mancanza di giudizio, con l’umiltà. Con La Lingua. Ciò che intimamente siamo e diventiamo, e ripercorriamo ogni volta, come fa Hemon, che in diversi racconti ritorna sulla stessa scena, momento, arrivandoci però da punti di partenza diversi, e inquadrando ogni volta nuovi particolari, aspetti più dettagliati. Le facce terrorizzate della gente che corre sul viale dei cecchini: quante volte Hemon riprende questa immagine e la riposiziona in quella che apparentemente è un’altra storia, un’altra vita? E basta niente per arrivarci di nuovo: è un giro di frase, è una costruzione sintattica, è un’associazione, è un rimando. Perché la vita di tutti noi è costellata di sequenze visive e sintattiche che ci hanno (de)formato. E dirle dobbiamo. Raccontarle. Per evitare che ci soffochino. Per imparare a guardarle in faccia senza (più) paura. «Nei miei libri, i personaggi di finzione mi permettevano di capire quello che mi è difficile capire. Mi ero ritrovato con un surplus di parole, la cui lunghezza superava di gran lunga i ridicoli limiti della mia biografia. Avevo avuto bisogno di uno spazio narrativo in cui estendere me stesso; avevo avuto bisogno di più vite… Ho capito che il bisogno di raccontare storie è profondamente radicato nella nostra mente, e inscindibilmente intrecciato ai meccanismi che generano e assorbono linguaggio. L’immaginazione narrativa – e quindi la letteratura – è uno strumento evolutivo fondamentale per la sopravvivenza. Elaboriamo il mondo raccontando storie e produciamo conoscenza umana stringendo legami con dei noi immaginari». Poi infine però arriva l’ultimo racconto, Acquario, e qualunque conoscenza noi crediamo di avere conseguito, si dimostra inefficace. Per voi, che leggerete questo libro, non aggiungo altro. Per voi che vi apprestate ad aprirlo, anche solo ad aprire quell’ultimo racconto, sappiatelo: che nella vita c’è magia, e poi, quasi sempre, una perdita: per riequilibrare le cose.
Gianluca Minotti