Un’esplosione di interrogativi
Analizzando le foto dei satelliti e incrociando dichiarazioni – e silenzi – avvolti da un fumo non meno denso di quello sollevatosi dalle fiamme, molti si sono chiesti se non ci si trovasse già di fronte alle “prove generali” di un imminente attacco all’Iran. La domanda è serpeggiata sulla stampa internazionale all’indomani delle pesanti accuse che il Governo di Khartoum ha sollevato all’indirizzo di Israele, colpevole – secondo autorevoli esponenti dell’esecutivo sudanese – di un bombardamento aereo che, nella notte tra il 24 e il 25 ottobre scorso, avrebbe colpito una fabbrica di armi sita nella capitale del Paese africano, provocando una forte esplosione e la distruzione quasi totale dell’impianto. Pur nell’incertezza circa l’esatta ricostruzione dei fatti e lo stesso effettivo coinvolgimento di forze militari israeliane, diversi commentatori si sono cimentati con il difficile esercizio di disegnare scenari che consentissero di motivare con sufficiente approssimazione un’azione militare particolarmente offensiva, anche e soprattutto per le evidenti implicazioni in punto di diritto internazionale.
Le ipotesi formulate, benché con le menzionate cautele, hanno per lo più tentato di spiegare potenziali ragioni e retroscena del presunto attacco aereo israeliano1, così innescando però un’ulteriore serie di interrogativi, di natura più squisitamente (ma non esclusivamente) giuridica: se e quando, cioè, sia consentito a uno Stato agire nei termini in cui Israele avrebbe operato nel caso in questione.
L’uso della forza: coordinate del “diritto che non c’è”2
Nel corso della storia, l’uso della forza era stato a lungo ritenuto fisiologicamente funzionale alle relazioni tra Stati, perciò assolutamente lecito, tanto che la guerra veniva considerata – come nel celebre detto di von Clausewitz – nient’altro che «un proseguimento della politica con altri mezzi». Tuttavia, il pesante bilancio di atrocità commesse nei due conflitti mondiali aveva condotto a una più ponderata riflessione sul piano internazionale circa l’effettiva legittimità del ricorso allo strumento bellico, tanto da portare poi al divieto assoluto dell’uso della forza sancito dall’art. 2 comma 4 della Carta delle Nazioni Unite, il quale recita: «Tutti i membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altro modo incompatibile con i fini delle Nazioni Unite». La norma dettata dalla Carta, strettamente connessa all’obbligo di soluzione pacifica delle controversie di cui al precedente comma 3, non chiarisce tuttavia cosa debba intendersi con il termine “forza”. Si ritiene comunque prevalente l’opinione di coloro che vogliono così riferirsi alla sola forza armata, ed è comunque indubbio che il caso che ci interessa rientri astrattamente nella nozione di forza contemplata dall’art. 2 comma 4, poiché il raid aereo israeliano rappresenterebbe senz’altro un attacco armato.
Più problematico potrebbe essere invece riuscire a inquadrare l’ipotesi di specie tra gli atti diretti contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato, visto che alcune interpretazioni consentirebbero di allargare le maglie del divieto, rendendo così lecite alcune tipologie di azione, come ad esempio le rappresaglie armate o l’uso della forza a scopo preventivo. Prevale, tuttavia, un approccio più rigoroso, fondato tra l’altro su una lettura sistematica della Carta delle Nazioni Unite, nonché sulla definizione di aggressione contenuta nella risoluzione n. 3314 del 1974 e sulle Dichiarazioni sulle relazioni amichevoli (1970) e sul rafforzamento dell’efficacia del principio dell’astensione dalla minaccia o dall’uso della forza nelle relazioni internazionali (1987), laddove vengono annoverati tra gli atti di forza anche quelle violazioni della sovranità di un altro Stato che però non ne intaccano né l’integrità territoriale né l’indipendenza politica (ad esempio le violazioni delle frontiere internazionali).
Il divieto dell’uso della forza, del resto, costituisce – per quasi unanime opinione – una norma di jus cogens, cioè una norma di diritto internazionale consuetudinario a carattere eccezionalmente cogente, e dunque non derogabile neppure dai trattati. Ciò significa che, al di là delle possibili esegesi degli articoli della Carta, sussisterebbe comunque un divieto assoluto di uso della forza che trova la sua fonte nel diritto internazionale generale. In tal senso si è pronunciata anche autorevole giurisprudenza (CIG sent. 27 giugno 1986, Attività militari e paramilitari contro il Nicaragua), rendendo così la violazione del divieto un illecito internazionale, quando non anche un vero e proprio crimine internazionale.
Il crinale su cui si sarebbe mossa l’operazione israeliana in Sudan è dunque molto insidioso e rende necessari ulteriori passaggi per comprendere la sussistenza di eventuali possibili “vie di fuga” in punto di diritto.
“Vie di fuga”
La Carta delle Nazioni Unite contempla alcune eccezioni al divieto di uso della forza di cui all’art. 2 comma 4. Vanno anzitutto escluse dal caso che ci interessa sia le azioni coercitive intraprese dal Consiglio di Sicurezza delle NU (art. 42), sia le azioni intraprese sulla base di accordi o organizzazioni regionali (art. 53 comma 1), poiché evidentemente non ricorrenti nella fattispecie: secondo la ricostruzione delle autorità sudanesi, infatti, Israele avrebbe agito da solo, senza alcuna preventiva autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza. Residua, dunque, alla nostra analisi l’ipotesi della legittima difesa, di cui all’art. 51 della Carta.
L’eccezione in questione costituirebbe appunto un limite – anch’esso fondato sul diritto internazionale generale e consacrato dal diritto naturale all’autotutela (individuale o collettiva) – al divieto di uso della forza, per cui nessuna statuizione della Carta potrebbe privare uno Stato del diritto di difendersi da un attacco armato, fintanto che il Consiglio di Sicurezza non abbia adottato le misure necessarie al mantenimento della pace e della sicurezza internazionali. Peraltro allo Stato che agisca per legittima difesa corre l’obbligo di avvisare immediatamente il Consiglio di Sicurezza delle misure intraprese in via d’urgenza. Comunque si vogliano interpretare le motivazioni israeliane, è palese che non vi sia stata alcuna comunicazione al Consiglio di Sicurezza; pertanto il diritto non sarebbe stato in ogni caso esercitato ritualmente.
A monte, tuttavia, sarebbe indispensabile chiedersi quale tipo di attacco armato avrebbe subito Israele nelle circostanze del caso. Alla luce delle più accreditate opinioni, che fanno riferimento a un’aggressione armata contro il territorio dello Stato o altri beni che ne rappresentino la sovranità, bisognerebbe anzitutto ricostruire la nozione di aggressione; operazione, questa, piuttosto complessa, nonostante l’utile riferimento alla già citata risoluzione n. 3314 del 1974, che lascia però ampli margini ermeneutici, non avendo pretese di esaustività. In ogni caso, anche volendo ammettere che l’impianto oggetto del presunto bombardamento fabbricasse armi per l’Iran, risulterebbe estremamente arduo ricondurre questa ipotesi ad una di quelle elencate nella risoluzione n. 3314. Al ragionamento troppo contorto si andrebbe poi ad aggiungere la probabile incongruenza rispetto ai criteri di necessità, proporzionalità e immediatezza, che pure la legittima difesa deve possedere per non costituire a sua volta un illecito uso della forza.
Sulle orme di Bush figlio?
La tipologia di attacco attribuito all’aviazione israeliana sembrerebbe piuttosto rientrare nei canoni della c.d. difesa preventiva, che ha trovato nel precedente della cosiddetta “dottrina Bush” una pietra miliare. Sulla legittimità di un simile approccio si registrano sfumature degne di nota. Se infatti, in linea generale, forti dubbi di legittimità sono stati sollevati da più parti, taluno ha inteso distinguere tra minacce potenziali e minacce imminenti e reali, le quali ultime consentirebbero l’uso preventivo della forza. In particolare, è stato evidenziato come il diffondersi di arsenali nucleari implichi di necessità un mutamento di prospettiva nel definire i confini della legittima difesa: attendere l’aggressione prima di agire, in questi frangenti, non avrebbe senso. Ciò non toglie, del resto, che il ricorso alla legittima difesa presupponga, come già visto, l’improcrastinabilità della reazione; diversamente, anche la minaccia nucleare dovrebbe essere sottoposta al vaglio delle Nazioni Unite per gli opportuni provvedimenti.
Che sia però questo il caso di specie, è comunque difficile da affermare. E’ chiaro, infatti, che l’alone di mistero che avvolge la vicenda della fabbrica sudanese non consente di apprezzare appieno il fondamento applicativo di un simile quadro. Inoltre, talune delle letture offerte dagli analisti tramite i mezzi di comunicazione disegnano scenari del tutto differenti. Se davvero, come pure è stato sostenuto, l’azione israeliana potrebbe configurare una minaccia all’Iran o un messaggio per il Governo statunitense, o finanche una sorta di “prova” di un possibile imminente attacco ai siti nucleari iraniani, saremmo in ogni caso al di fuori di qualunque cornice di legittimità giuridica internazionale, anche solo potenziale. Né sarebbe possibile sostenere agevolmente che la mancanza di un sistema efficace di attuazione delle norme internazionali in capo alle Nazioni Unite riesca in qualche modo a giustificare operazioni di tal fatta. Ci troveremmo piuttosto di fronte a una regressione del linguaggio delle relazioni internazionali, ben lontani dallo spirito della Carta, sulle pericolose orme di precedenti che già hanno mostrato limiti evidenti. Con la preoccupazione pressante di ragionare sempre più in termini di jus in bello anziché di jus ad bellum.