Una storia editoriale da sogno, tanto incredibile da sembrare un’invenzione, raccontata punto per punto sulla bandella di quarta: nel 2010 alla Fiera del Libro di Londra si scatena un’asta serratissima per avere i diritti per l’opera prima di una pedagogista americana; Garzanti si aggiudica la traduzione prima ancora che venga stabilito chi sarà a pubblicarlo in USA, ma solo a prezzo di una cifra da capogiro.
Il linguaggio segreto dei fiori è già un best seller prima della sua pubblicazione.
Tradotto in una trentina di lingue, pare che in due mesi abbia superato le 250.000 copie in tutto il mondo.
Presentato con quattro copertine, ognuna con un fiore (e quindi un significato) diverso, rivela un’abile strategia per fare in modo che ogni libreria, per quanto piccola, ne tenesse almeno quattro copie disponibili (tattica già peraltro messa in opera un bel po’ di anni fa da qualche Crichton o roba simile).
Le quattro copertine
Il linguaggio segreto dei fiori, seppur con tutta la sua potenza mediatica, non è stato neanche capace di dividere i lettori (come ad esempio ha fatto E il giardino creò l’uomo, di Jorn de Prècy): in rete commenti stanchi, anche quelli entusiasti sono così ingenui (senza alcuna connotazione positiva) da evidenziare la giovane età dei lettori e la loro scarsa familiarità con la letteratura.
Lo stile, opportunaMENTE privato di swifty e avverbi cattivi è quanto mai rappresentativo di una narrativa del tutto contemporanea, lineare e amorfa, senza palpiti di stile, creata a tavolino dalle case editrici e dal business del libro, di cui gli editor e i manuali di scrittura creativa sono gli evangelisti. Tale è infatti l’unica narrativa possibile oggi, una narrativa che non impegni ma commuova, che non faccia pensare e che racconti storie tristi dal finale felice. E lo stile che occorre per raccontarle è proprio questo: una piatta distesa di parole. Finisce così che anche chi legge abbastanza (ma solo romanzi o romanzetti) si convinca che questo libro è perfino “ben scritto”. Povera Geoge Eliot, che direbbe? Probabilmente nulla, in certi casi è meglio il silenzio.
Il contenuto tocca argomenti di grande rilievo umano e sociale, affrontati con totale superficialità, banalizzati fino al ridicolo, resi apatici stereotipi mille volte letti, visti, ascoltati. L’autrice non è riuscita a mettere a frutto neanche un’oncia della sua lunga esperienza con i bambini in affido. I personaggi non hanno alcuno spessore nè narrativo nè caratteriale, sono solo delle tracce editoriali su cui far procedere una narrazione ripetitiva e piatta che trova la sua ragione d’essere solo nel compimento del volume per la sua vendita.
Venendo poi all’argomento floricolo, non posso che essere assai scettica a riguardo. Basterebbe leggere l’incipit del mio articolo che riguarda la simbologia legata ai fiori per farsi un’idea di quanto nocivo sia appiccicare un significato “umano” alla natura. Non si potrebbe essere più chiari di Borchardt nel dire che questo tipo di sovrapposizione allontana moltissimo dalla vera essenza delle cose.
Il linguaggio dei fiori ha origini molto antiche, certo pre-vittoriane, e neanche europee, ma indiane o della zona dell’Asia Centrale. Per farsi un’idea si legga a riguardo la recensione al volume Il linguaggio dei fiori di Charlotte de Latour, ed. Olschki presente su questo blog.
Eppure il linguaggio dei fiori ha avuto un gran successo tra i giovani, perlomeno negli scorsi anni, come testimonia la ricchezza di testi a riguardo. Si confronti il link di una ricerca su IBS con le parole ‘linguaggio+ fiori’ .
Il tema floreale è del tutto marginale ed è solo un espediente narrativo per dare un tocco di originalità al romanzo, tra l’altro del tutto poco credibile. Nel libro sembra che i fiori, ma solo alcuni specifici fiori, abbiano il potere di cambiare subitaneamente le vite delle persone per il semplice fatto di esistere.
Noi giardinieri sappiamo che è vero, ma che questo si applica indistintamente a tutti i fiori, le piante, gli alberi e tutte le creature che con essi hanno a che fare, e non certo solo a determinati fiori in determinati contesti.
Per noi la lavanda non significherà mai “sospetto”, nè le peonie “rabbia” (forse sì, quando arriva il tipico acquazzone primaverile e le straccia tutte). Nè rose rosse significano “amore” e quelle bianche “purezza”.
La protagonista, parlando con la voce della sua autrice, arriva addirittura a formulare un pensiero davanti al quale si rimane annichiliti e si spera che la casa editrice le elargirà un bonus extra per una serie di sedute presso un buon terapeuta.
Victoria (un nome scelto con molta cura, che rimanda direttamente alla Regina Vittoria e al ferreo rigore delle regole di corteggiamento articolate sotto il suo lungo regno, nonchè alla vittoria/riscatto finale e all’inevitabile happy end) concepisce un mondo in cui i fiori diventino medium, quindi espressione di un pensiero, un’emozione, una frase.
Sogna un mondo senza peonie perchè non vuole più rabbia attorno a sé, e persone che si regalino solo pervinche e rose rosse.
Rose gialle? Via dai giardini! Lavanda? Sciò! Viva le dalie, abbasso gli anemoni. I girasoli? Van Gogh doveva avere qualche rotella fuori posto per dipingerne tanti, e tanti ne dipinse che è chiaro (a Victoria e le sue adepte) perchè si suicidò senza un soldo in tasca.
Il fiore viene dunque confinato in uno status non già di di simbolo, ma di allegoria.
Il fiore perde completamente il suo valore storico e semiotico per assumere una valenza inconsapevole e casuale di artificio letterario di dubbia qualità.
Il linguaggio segreto dei fiori è quindi il primo candidato ufficiale per il prestigioso premio Amore al risciacquo nelle categorie “Potemkin” e “Green Guignol”.
Filed under: Libri Tagged: categoria green guignol, categoria potemkin, il linguaggio segreto dei fiori, premio amore al risciacquo, vanessa diffenbaugh