Mercoledì 13 Febbraio 2013 15:24 Scritto da marco.ernst
Grey era un lupacchiotto grigio, membro di una cucciolata di tre.
La madre e il padre avevano eletto a loro tana una profonda grotta della fredda montagna sulla quale, da sempre, il loro branco era vissuto.
Già, il branco: un tempo era numeroso, erano in tanti, una vera comunità dove tutti si davano un aiuto.
Se una lupa veniva a mancare, infatti, altre femmine si occupavano di svezzare i suoi cuccioli, mentre i maschi cacciavano in branco, così che vi era sempre carne fresca: cervi, soprattutto.
Poi i cervi erano praticamente scomparsi, cosicché, per sopravvivere, il branco dovette dedicarsi alle pecore; ma questa era una caccia molto più pericolosa delle affilate corna di un cervo maschio: i pastori difendevano strenuamente le loro greggi e, quindi, sotto le fucilate, le tagliole, i bocconi avvelenati, tantissimi membri del branco erano caduti.
Molti altri se n’erano andati in cerca di zone più sicure e del branco non erano rimaste che poche famiglie isolate.
La madre e il padre di Grey e dei suoi fratelli erano fra coloro che avevano deciso di restare, avevano scelto la grotta come tana e qui erano nati i lupacchiotti.
Poi, esaurito il suo compito di riproduttore, anche il maschio se ne andò: il desiderio della caccia in branco come ai vecchi tempi, l’orgoglio di essere nuovamente un capobranco, erano un richiamo irresistibile.
Rimase solo la femmina ad accudire e crescere i tre cuccioli ma, si sa, per una femmina non è facile cacciare da sola; così i tre piccoli, che di giorno in giorno diventavano sempre più famelici e, oltre il latte materno, oramai sentivano prepotente il desiderio della carne fresca, la costringevano ad allontanarsi sempre più spesso dalla grotta per cercare prede sempre più rare.
Avvicinarsi da sola alle greggi, neanche a parlarne: troppo pericoloso.
A volte succedeva che una pecora vecchia e malata o un agnello si perdessero, allora era gioco facile farne cibo per sé e per la sua cucciolata, ma la maggior parte delle volte si doveva accontentare di piccole ed insufficienti prede come scoiattoli e topi.
In questo modo il cibo non era sufficiente per quattro e il più debole dei cuccioli non ce la fece.
Ma anche tre lupi non si possono accontentare di un topo da dividere fra tutti.
Mamma lupa doveva rischiare sempre di più per l’istinto che la spingeva a nutrire ad ogni costo i suoi figli, spesso si privava del cibo lei stessa per lasciare a loro le magre prede.
Divenne così sempre più debole, lenta, coi riflessi appannati.
E un giorno uscì per la caccia e non tornò mai più.
I due fratelli non capivano perché mamma non ritornasse: capivano solo che avevano fame, sempre di più, mentre i giorni passavano nell’attesa.
Anche il secondo fratello di Grey non sopravvisse e il lupacchiotto grigio rimase solo ad andare incontro ad un destino che non gli concedeva troppe possibilità di sopravvivere.
Ma Grey voleva vivere, a tutti i costi: era forte, degno erede del padre, era caparbio, curioso e intelligente.
Gli riuscì, dapprima di catturare qualche pipistrello che condivideva con lui la grotta; aveva imparato ad attendere, su uno spuntone di roccia, che, all’alba, questi tornassero e si appendessero al soffitto: dalla sua postazione, spiccando un balzo, riusciva a prenderne quasi sempre uno al volo, il proprio volo.
Poi fu la volta di un tasso che, sentendo fievole l’odore dei lupi che avevano abitato la grotta, fece l’errore di ritenere che non ne fosse rimasto più alcuno: questa fu carne fresca per alcuni giorni.
Toccò ancora ad alcuni pipistrelli e a qualche topo, ma Grey cresceva e sembrava che il cibo non bastasse mai.
Così, un giorno, egli si spinse fino all’imboccatura della grotta: la luce, alla quale non era abituato, quasi lo accecò; tornò spaventato e uggiolante nel fondo, buio e umido, ma tranquillo della sua tana.
Però…
Quella luce, passato lo spavento e il dolore agli occhi, lo incuriosiva, lo attirava: chissà cosa mai c’era al di là?
Si spinse allora nuovamente all’imboccatura, questa volta, però, preparato alla luce; era quasi sera e, così, questa non era più né tanto forte, né tanto fastidiosa.
Si fermò a lungo a guardare gli alberi, i cespugli, le rocce ricoperte di muschio: tutte cose nuove per lui, che non aveva mai visto, ma soprattutto c’era la luce che lo attirava, anche se i lupi, per natura, sono animali notturni.
Per la prima volta ululò al mondo la sua presenza.
Oramai il bisogno di cibo era diventato secondario: ora c’era, davanti a lui, quel mondo sconosciuto, spaventoso ma affascinante; alle spalle c’era sì la sicurezza, ma anche la monotonia della sua tana e, per di più, la fame.
Per molti giorni si portò al limitare della caverna a guardare quel mondo nuovo e misterioso; un giorno provò anche a mettere fuori una zampa: il terreno era caldo, la ritrasse subito. Non era, però, una sensazione spiacevole: quel calore gli ricordava quello del ventre della madre, quando lui vi si acciambellava contro per dormire o per succhiare il latte, sicuro e protetto.
Grey era sul limite della grotta per l’ennesima volta: dietro la sicurezza, davanti l’ignoto, ma questo lo attirava troppo.
Uscì e non fece mai più ritorno alla tana.
Si spinse lontano, a cercare il branco.
Uccise per nutrirsi, sfidò le corna dei cervi, crebbe, combatté per il cibo e per affermarsi e divenne un capobranco, come lo era stato il padre.
Era forte perché aveva vinto la paura dell’ignoto, sopravviveva perché era curioso e intelligente.
Crebbe ancora e trovò una compagna che gli diede dei cuccioli ai quali avrebbe insegnato, soprattutto, a non aver paura di scoprire il nuovo.
Correva libero in un mondo dove c’era uno spazio infinito, si spingeva lontano a cacciare e poi ululava le sue vittorie alla luna e alle montagne.
Un giorno, sulle tracce dell’odore di un cervo, passò davanti alla sua vecchia tana: per un momento la guardò, guardò quel buio tetro, forse gli parve di conoscerla, ma no, il suo modo erano gli spazi infiniti, non la riconobbe e non ricordò di avervi vissuto.E riprese la caccia.