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Il Made In Italy al tempo del villaggio globale

Creato il 22 novembre 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Il Made In Italy al tempo del villaggio globale"I vantaggi economici del commercio internazionale sono superati in importanza dai suoi effetti morali ed intellettuali. E' impossibile sottovalutare il rilievo di porre in essere umani in contatto con persone da loro diverse e con modi di pensare e di agire differenti da quelli con i quali essi sono familiari (...). E non è esagerato affermare che la grande estensione e il rapido incremento del commercio internazionale siano il fattore del progresso ininterrotto delle idee, delle istituzioni e delle caratteristiche della stirpe umana".1
Commercio internazionale e globalizzazione

Per quanto ne sappiamo, il breve brano riportato all'inizio dell'articolo, pregno di sincero entusiasmo verso i progressi compiuti dall'umanità in seguito all'intensificarsi dei contatti tra popoli diversi e degli interscambi commerciali, potrebbe essere stato oggetto di un intervento alla conferenza mondiale dei paesi meno avanzati o all'ultima assemblea delle Nazioni Unite. O ancora, queste parole, che fanno l'elogio del commercio internazionale come propulsore dello sviluppo dei popoli, potrebbero essere state scritte da un professore universitario in un libro di testo destinato agli studenti del corso di Economia Politica o da un corrispondente per una qualsiasi testata economica.

E' chiaro che tali parole potrebbero appartenere senza troppi problemi al nostro tempo e non faticheremmo certo a riconoscere loro il peso che meritano. Il nostro stupore nell'apprendere che il brano di introduzione al presente lavoro appartiene invece al filosofo sociale ed economista Stuart Mill sarà probabilmente contenuto. Infatti non stiamo parlando di un tempo troppo lontano da noi, ad esempio dell'epoca romana o del secolo in cui Alessandro Magno in testa al suo esercito conquistava metà del globo senza possedere un carro armato o far ricorso a qualche arma chimica; piuttosto guardiamo al XIX secolo come a un lontano cugino, i cui tratti fisionomici, seppure differenti dai nostri, rimandano ad alcune affinità dalle quali emerge, forse non troppo distintamente, la parentela comune. Un secolo che assomiglia al nostro, pur rimanendo nella sostanza profondamente diverso.

Ma il discorso che qui stiamo portando avanti- ovvero lo sviluppo del commercio internazionale e il suo impatto sull'evoluzione delle stirpi umane- assume delle connotazioni diverse se, esulando dal mero contesto economico o culturale, ci soffermiamo invece a riflettere sulle grandi invenzioni che hanno cambiato il destino stesso dell'umanità. Nel XIX secolo non esisteva nessuno- o quasi- dei mezzi di comunicazione che oggi si rendono necessari se vogliamo spedire, ad esempio, un prodotto ad un consumatore che si trovi dall'altro capo del pianeta o fare un acquisto online. L'utilizzo delle moderne tecnologie non è appannaggio dei grandi impianti industriali e dei colossi multinazionali. Anche il panettiere sotto casa si troverebbe nell'impossibilità di fare un ordinativo senza una rete telefonica e una connessione internet.

Tuttavia l'entusiasmo verso i progressi recenti compiuti dalla scienza e le invenzioni tecnologiche che si sono susseguite nel tempo, non ci deve indurre nell'errore piuttosto grossolano di credere che la globalizzazione in quanto tale sia un fenomeno recente. Friedman ci fa osservare che "già nel periodo compreso tra la metà dell'Ottocento e gli anni Venti del Novecento il mondo ha attraversato una fase di globalizzazione Se si guarda al rapporto tra i volumi degli scambi transnazionali di beni e capitali e il PIL e quello tra il flusso dei lavoratori da una nazione all'altra e la densità della popolazione, il periodo che ha preceduto la grande guerra è abbastanza simile a quello che stiamo vivendo oggi. La Gran Bretagna che al tempo era la potenza dominante investiva massicciamente nei mercati emergenti e spesso succedeva che in Inghilterra, Europa e Stati Uniti i mercati finanziari subissero i contraccolpi di incidenti occorsi alle obbligazioni emesse da compagnie ferroviarie argentine, governi lituani o tedeschi" 2.

Oggi il commercio internazionale ha assunto delle caratteristiche differenti rispetto all'epoca di Mill e deve il suo straordinario sviluppo al miglioramento delle infrastrutture mondiali di comunicazione e di trasporto, allo sviluppo dei mercati finanziari, al diffondersi di servizi alle imprese, all'adozione di nuove tecnologie che hanno contribuito ad accelerare la velocità degli spostamenti di merci e di capitali. Il commercio internazionale è un'attività fondamentale per tutti i paesi che, a vario titolo, partecipano al villaggio globale siano essi semplici spettatori o attori principali. Tuttavia commercio internazionale non è sinonimo di globalizzazione. Esso è piuttosto una delle tante rotelle che ne costituiscono l'immenso e complesso ingranaggio.

Per Ziegler sebbene esistessero forme di globalizzazione già nel XV e XVI secolo- quando gli europei hanno scoperto l'Africa australe, l'Australia,l'Oceania e l'America- la globalizzazione o mondializzazione 3 non ha nulla a che vedere con le grandi scoperte geografiche ma rassomiglia piuttosto ad un sisma che non ha lasciato nessuno indifferente 4. Un evento di portata mondiale i cui effetti si sono prodotti alterando gli equilibri esistenti. Essa nasce dalle ceneri della disintegrazione dell'URSS e della fine della guerra fredda e si pone come baluardo di un nuovo sistema mondiale che, stando alle parole dei dirigenti politici e di economisti di fama internazionale, avrebbe dovuto garantire finalmente una fase di benessere e di sviluppo per tutti i popoli della terra. Questo obiettivo sarebbe stato assicurato dalla libera circolazione delle merci e dei capitali, attraverso l'abolizione di dazi e di dogane, barriere e qualsiasi altro ostacolo agli interscambi di natura commerciale e finanziaria. Non solo: globalizzazione significava per le oligarchie promotrici di questa nuova visione del mondo l'esportazione di democrazia e pace nei paesi del Terzo Mondo dilaniati da conflitti e guerre, in altre parole globalizzazione era il sinonimo di sviluppo.

Tuttavia, il sogno di un mondo finalmente libero dal flagello della povertà e della fame, in cui tutti popoli godano dello stesso benessere economico e sociale è ancora lontano dalla piena realizzazione. Parafrasando Churchill, una cortina di ferro continua a dividere il mondo: da una parte un numero ristretto di singoli centri di affari in cui si sono installate le grandi società, le banche, le assicurazioni, i servizi di marketing e di distribuzione, i mercati finanziati. Intorno a questi centri economici si estendono vaste zone abitate in cui una parte della popolazione riesce ad avere l'intelligenza e le relazioni necessarie per riuscire a vivere delle briciole di attività che gli affari "globalizzati" diffondono necessariamente nei loro immediati dintorni 5. Dall'altra parte si estende "l'avanzata dei deserti", ovvero dei paesi più deboli che pagano in termini di vite umane e di sottosviluppo l'accumulazione primaria del capitale occidentale.

La globalizzazione non riguarda solo gli aspetti economici, ma anche quelli antropologico-culturali. Latouche parla di occidentalizzazione del mondo in quanto "uniformizzazione planetaria sotto il segno dell' american way of life, e scrive:

"La maggior parte dei simboli esteriori della " cittadinanza" mondiale sono made in USA. Gli Stati Uniti sono ormai l'unica superpotenza mondiale. La sua egemonia politica, militare, culturale, finanziaria e anche economica è incontestabile. Le principali imprese transnazionali sono nordamericane. Esse detengono la supremazia sulle nuove tecnologie e sui servizi avanzati. Il mondo è una grande fabbrica, ma il comando resta americano. Molto più della vecchia Europa, l'America incarna la realizzazione quasi integrale del progetto della modernità" 6.

Simbolo dell'occidentalizzazione del mondo è la Coca Cola. Essa può essere prodotta e consumata in qualunque angolo del mondo ed è sempre la stessa bevanda. E' il simbolo delle multinazionali americane che vogliono uniformare il gusto in tutto il pianeta. In un mondo come questo, che peso ha il Made in Italy? Quanto può contare per i consumatori che una lampada o una camicia siano state prodotte in Italia anziché in Turchia o in Kazakistan?

Una massa di consumatori tutti uguali

L'intuizione secondo la quale si stava assistendo alla convergenza progressiva ma inesorabile di tutte le culture verso una cultura "globale" si deve per primo a Levitt. L'economista americano e professore alla Harvard Business School nella celebre opera del 1983 "Globalization of Markets"scrive: "In qualunque parte del mondo, tutto diventa sempre più simile a quanto si trova altrove con l'inesorabile omogeneizzazione della struttura di preferenze mondiale". Per questo motivo incoraggiava le aziende a comportarsi come se si trovassero in un unico grande mercato globale, tralasciando le differenze nazionali e culturali di ciascun paese-mercato.

Come è noto, una delle scelte strategiche che un'azienda internazionalizzata si trova a compiere risiede nell'alternativa cruciale tra standardizzazione e adattamento. La scelta della standardizzazione implica lo sviluppo di politiche di marketing uniformi nei diversi paesi/mercati in cui l'impresa intende operare, concentrandosi dunque maggiormente sulle affinità ed analogie tra i paesi piuttosto che sulle differenze che li distanziano, mentre l'adattamento comporta politiche differenziate in funzione della specificità che caratterizzano il contesto economico, socioculturale e concorrenziale dei singoli paesi esteri .La standardizzazione offre dunque, da questo punto di vista, la possibilità di offrire lo stesso prodotto a un cinese e a finlandese senza cambiamenti nelle leve del marketing o nelle caratteristiche del prodotto, con un impatto notevole sulla riduzione dei costi di distribuzione e di marketing.

Ma siamo proprio sicuri che a livello globale si stia verificando un'assimilazione dei gusti? Che un indiano voglia lo stesso panino che desidera un francese, o la stessa auto che guida un americano? Possiamo affermare che le identità nazionali non contano più e che la cultura è da relegarsi esclusivamente all'ambito dell'indagine antropologica, insomma possiamo essere certi che, che de facto, siamo tutti uguali (consumisticamente parlando)? Sono in molti tra economisti ed esperti di marketing a chiedersi se sia davvero in atto, nel mondo, un processo di globalizzazione a livello culturale. Se così fosse, si dovrebbe assistere a una convergenza di diversi indici culturali.

Paul Herbig, autore di Marketing interculturale, ritiene che non si possa parlare, in questo senso, di nessuna convergenza e a sostegno della sua ipotesi porta la survey condotta da Hofstede (noto per le dimensioni culturali) 7 tra il personale di IBM, i cui risultati sono stati ripetuti e confermati diverse volte. In oltre 20 anni dalla pubblicazione dell'originale, le varie repliche indicano molto chiaramente che non solo non è in atto alcuna convergenza (vale a dire i valori degli indici non stanno confluendo verso nessun denominatore comune), ma anzi piuttosto che è in corso una divergenza (ovvero i valori dei Paesi all'interno dello stesso gruppo stanno lentamente ma inesorabilmente distanziandosi). In secondo luogo, è sempre Herbig a farci notare che negli ultimi anni si assiste a un aumento della consapevolezza etnica, che si è manifestata, per esempio nelle battaglie dei Nativi Americani per riconquistare le proprie terre, nell'orgoglio nei confronti delle proprie origini da parte degli afroamericani, nella scissione delle repubbliche dell'ex Unione Sovietica nelle violente battaglie nelle Hawaii per riaffermare i diritti delle popolazioni indigene e che si manifesta, con episodi forse di portata minore, tuttora.

Se fosse in atto una convergenza fenomeni di questo tipo non dovrebbero trovare spazio nel villaggio globale. La spiegazione data da molti studiosi è quella secondo la quale l'era della globalizzazione ha portato i popoli della Terra a riscoprire l'importanza delle proprie origini, quello che Friedman chiama l'ulivo:
"l'ulivo è ciò che ci dà il calore della famiglia, la gioia dell'individualità, l'intimità dei riti personali , la fiducia e la sicurezza per metterci in gioco e affrontare il mondo. A volte, combattiamo duramente per i nostri ulivi, perché da loro dipendono il senso di stima e di appartenenza che sono essenziali alla sopravvivenza umana quanto il cibo. Anzi una delle ragioni per cui gli stati nazionali non scompariranno mai, anche se si indeboliranno, è che rappresentano l'albero di ulivo fondamentale, l'espressione più originale della nostra appartenenza linguistica, storica e geografica. Un essere umano, solo, non è completo"8.

Un'altra evidenza empirica è rappresentata dal fatto che nessuna impresa vende i propri prodotti sic et simpliciter in ogni parte del globo. Il menù di McDonald's, per quanto standardizzato, viene adattato ai gusti locali: in Brasile comprende una bibita a base di frutti di bosco, in Malesia, Tailandia e Singapore un frullato di frutta. In Giappone ha introdotto il McChao, simile al riso alla cantonese, a Hong Kong frullati al cocco, al mango e alla menta tropicale. A volte è proprio il mancato adattamento di un prodotto a determinarne il fallimento di mercato: un perfetto esempio viene dal Giappone, dove la Gillette ha una quota di mercato del 10% mentre il suo competitor Schick ha una quota del 62%. La prima pone l'accento sulle sue radici americane utilizzando la stessa confezione che utilizza negli Usa e lo stesso spot pubblicitario, mentre la seconda non ha mai utilizzato uno straniero nelle sue pubblicità ed ha perfino cambiato il nome del suo prodotto in FX perché più facile da pronunciare per i giapponesi.

Quale futuro per il Made in Italy?

La crisi economica globale originatasi nel 2008 negli Stati Uniti e propagatasi per contagio alle varie economie mondiali - e la cui ripresa, a detta degli economisti, sembra ancora lontana- ha determinato turbolenze sui mercati finanziari, minimi storici nei tassi di crescita e del commercio internazionale, picchi negativi nei livelli di fiducia. Le imprese, come conseguenza, hanno dovuto fare i conti con una stagnazione della domanda interna e la concorrenza dei paesi emergenti. Da molti mesi ormai viene ripetuto quasi quotidianamente che la ricetta per uscire dalla crisi economico-finanziaria che sta mettendo in ginocchio la nostra nazione può solo essere l'internazionalizzazione delle imprese, in particolar modo di quelle export-oriented.

Tuttavia, il processo di internazionalizzazione delle imprese italiane si presenta in qualche modo più complesso ed articolato rispetto al resto d'Europa. Il tessuto industriale italiano appare peculiare rispetto alle altre nazioni, concorrendo a definirsi come un "capitalismo a sé stante". In particolare, due sono le principali difficoltà che, secondo gli studiosi di disciplina aziendale, rappresentano la causa del ritardo economico italiano:

  • la ridotta dimensione delle imprese italiane, ovvero l'incidenza di piccole e medie imprese con una dimensione media di impresa di 4 addetti. La piccola dimensione delle imprese continua a dare al sistema produttivo una grande flessibilità, tuttavia più piccola è la dimensione, più difficoltoso è sostenere gli elevati costi fissi connessi con l'attività di R&S, l'innovazione, l'accesso ai mercati esteri; ne risente il tasso di crescita della produttività.
  • la specializzazione produttiva: l'elevato peso dei settori tradizionali (tessile, abbigliamento, cuoio e calzature, mobili) nella struttura produttiva italiana si riflette in una scarsa propensione all'innovazione e in una maggior esposizione alla concorrenza da parte dei paesi emergenti con manodopera a basso costo.


A questo si aggiungono altre debolezze del sistema-Italia: il deficit infrastrutturale ed energetico, il persistente differenziale di sviluppo economico e sociale tra regioni del Centro-Nord e quelle del Mezzogiorno ed il gravame di un debito pubblico gigantesco che rende molto difficili gli investimenti.

Le statistiche forse meglio delle parole rivelano il posizionamento delle imprese italiane sul mercato internazionale. Recentemente ha fatto clamore la notizia che la Spagna ha superato l'Italia nella produzione di piastrelle, un'impresa che le aziende iberiche hanno messo a segno grazie al boom delle vendite nei Paesi emergenti. Eppure, non è questo l'unico sorpasso che il nostro Paese ha dovuto subire negli ultimi anni: dalle navi all'arredamento, dagli oggetti in plastica alle apparecchiature elettroniche, stando ai dati Unctad-Wto tra il 2008 e il 2012 per sette volte l'Italia ha dovuto chinare la testa di fronte ai suoi concorrenti 9. La ripresa dell'export made in Italy sui mercati internazionali non è affatto soddisfacente: secondo la rilevazione dell'ufficio studi di Confartigianato nel secondo trimestre dell'anno le vendite all'estero sono aumentate dello 0,4% rispetto al primo trimestre. In particolare il settore manifatturiero ha registrato nei primi sei mesi del 2013 un aumento dello 0,4% rispetto a giugno 2012, per un valore di 178.015 milioni di euro (+55 milioni) 10. E' evidente che la congiuntura economica internazionale non è particolarmente favorevole per le imprese italiane, siano essere orientate al mercato nazionale o all'export, ma è quanto mai lecito domandarsi se, in tutto questo, una parte anche minima di responsabilità sia da attribuirsi al processo di globalizzazione in atto.

Veniamo quindi alla nostra domanda: la globalizzazione è una minaccia o un'opportunità per il Made in Italy?

Fiumi di inchiostro sono stati versati e si verseranno nel tentativo di trovare una risposta univoca e certa. L'economia non è una scienza esatta. Non si tratta di matematica o fisica, ma di una scienza sociale caratterizzata tanto da fattori causali, in cui il nesso causa-effetto rende più facile l'individuazione dell'origine del problema, quanto casuali, in cui le circostanze e gli eventi, sciolti da qualsiasi rapporto di interdipendenza, giocano un ruolo importante nella determinazione dei fatti. Quando parliamo del mondo economico ci troviamo, in sostanza, di fronte ad una matassa ingarbugliata che solo raramente viene dipanata. Mentre solo un folle si sognerebbe di mettere in discussione la legge di gravitazione universale, molte questioni economiche ancora oggi vengono dibattute da economisti più o meno noti.

A mio avviso la risposta é: dipende dal punto di vista dal quale si osserva la situazione, il che può sembrare parecchio diplomatico e forse un tantino banale ma guardando alla realtà dei fatti è proprio questa la risposta che più si avvicina a rispecchiare la situazione attuale. Se si osserva il mercato globale dal punto di vista di una famiglia di imprenditori proprietari di una piccola impresa artigiana di calzature, il fatto che nel mercato globale le multinazionali la facciano da padrone, non è affatto una cosa positiva. Le multinazionali possono contare su un accesso privilegiato ai canali di distribuzione, ad un vasto e consolidato know-how, su ingenti risorse finanziarie da impiegare in R&S nonché in massicce campagne pubblicitarie, facendo leva sulla capacità di attrazione di brand ormai consolidati. Non è un caso che nella classifica dei brand più importanti a livello internazionale, le prime 10 posizioni siano occupate nell'ordine da: Apple, Google,Coca Cola, IBM, Microsoft, GE, McDonald's, Samsung, Intel ed infine Toyota. Bisogna arrivare alla novantottesima posizione per trovare un marchio italiano: la Ferrari 11.

L'omologazione dei gusti dei consumatori nei diversi angoli del pianeta costituisce l'obiettivo primo di quelle stesse oligarchie economiche che possiedono le multinazionali e che vorrebbero un mondo tutto-uno, in cui non ci siano differenze culturali di sorta che potrebbero configurarsi come ostacolo all'accettazione dei propri prodotti sul mercato globale. Basta andare al supermercato ed osservare la disposizione dei prodotti sugli scaffali del supermercato per comprendere come nei fatti si cerchi di manipolare le scelte d'acquisto dei consumatori, che si vorrebbero ridotti ad una massa di robot.

Ma c'è anche un altro punto di vista possibile. Se si accetta l'affermazione secondo cui gli stati nazionali non scompariranno mai, anche se si indeboliranno allora si può guardare alla globalizzazione con più ottimismo, perché è proprio dall'omologazione dei gusti e delle differenze che nasce un sentimento opposto, l'anelito a riconoscersi e a riconoscere negli altri quell'essenza che è l'umanità e che è fatta di somiglianze e differenze, ed è varia e complessa e per questo non può essere ridotta ad un tutt'uno. Negli ultimi anni si sta assistendo al (ri)fiorire di una nuova consapevolezza e di una ricerca di identità che va aldilà della mera appartenenza ad una comunità locale. Si ricercano i valori della tradizione, le radici della propria identità nazionale, il senso della storia, tutti elementi che nei mass-media trovano poco o nessuno spazio perché oggi sempre più spesso tradizione è sinonimo di vecchio, e vecchio è il contrario di innovazione per cui non è degno di interesse in una società in cui l'imperativo è stare al passo.

L'avanzare della tecnologia e della società informatizzata non sta creando una massa di stolti, come vorrebbero farci credere, ma sempre più spesso rappresenta la possibilità di un accesso all'informazione e al sapere precedentemente negato, oltre che l'opportunità impensabile qualche decennio fa di intrattenere relazioni con persone che abitano in altri continenti. Questo spiega il successo nelle nostre città dei tanti ristoranti cinesi, messicani, marocchini o dell'interesse per corsi di lingua araba o afrikans. Dietro questi fenomeni non si cela solo la voglia di scoprire qualcosa di nuovo ed inusuale, o di atteggiarsi ad alternativo. C'è la volontà di conoscere l'altro: non so chi sei, ma se vengo a mangiare quello che di solito mangi tu o inizio a studiare la tua lingua, forse riuscirò a conoscerti un po' meglio. Nel villaggio globale le imprese hanno l'opportunità di esportare insieme alla qualità dei propri prodotti o ad un design accattivante, ciò che è espressione profonda di quell'ulivo di cui ci parla Friedman. La storia di un popolo non si trova scritta solo in qualche tomo polveroso, ma è racchiusa anche in un paio di stivali o in una lampada artigianale; un bel vaso di Murano o il limoncello della costiera amalfitana sono portavoce della tradizione che ha tramandato di generazione in generazione i segreti di produzione.

Quando esportiamo non esportiamo solo (o non solo) un prodotto "fatto di un materiale lavorato in un certo modo", ma insieme con questo trasliamo oltre i confini nazionali l'essenza del popolo a cui appartiene.
Per l'ultima volta prendo a prestito le parole di Friedman: "rispetto alla globalizzazione, provo sentimenti analoghi a quelli che provo verso l'alba. Penso che sia una cosa buona che il sole sorga tutte le mattine: fa più bene che male [...]Ma anche se non avessi un'opinione così alta dell'alba, non potrei fare niente per impedirla" 12. Va bene domandarsi se la colpa dei risultati, in parte deludenti, dell'export italiano sia della globalizzazione ma faremmo la fine del serpente che si morde la coda se non facessimo altro che arrovellarci il cervello nel tentativo di trovare finalmente la risposta. Bisogna invece riflettere sul problema dell'internazionalizzazione delle PMI italiane, che è un problema dinamico, ovvero su come fare in modo che le imprese efficienti, piccole o medie che siano, crescano rapidamente nei mercati internazionali e su come garantire un'adeguata promozione dell'eccellenza del Made in Italy nel mondo, sviluppando nuovi canali e nuovi mezzi per mettere in contatto le piccole realtà industriali con il mercato globale.

1) Stuart Mill, Saggi su alcuni aspetti irrisolti dell'economia politica
2) T. L. Friedman, Le radici del futuro. La sfida tra Lexus e l'ulivo: che cos'è la globalizzazione e quanto conta la tradizione, Milano, Mondadori, 2001, p.9
3) Usati impropriamente in maniera interscambiabile, i due termini hanno in realtà connotazioni differenti: mentre "globalizzazione" sottintenderebbe una onnipotenza delle forze spontanee del mercato, "mondializzazione" invece metterebbe in chiaro la dimensione internazionale del problema di una governabilità dei processi in corso. La mondializzazione deve essere pensata come una fase specifica del processo di internazionalizzazione del capitale e della sua messa in valore alla scala dell'insieme delle regioni del mondo dove si trovano delle risorse e dei mercati e di quelle sole (Chesnaix).
4) J. Ziegler, La privatizzazione del mondo. Padroni, predatori e mercenari del mercato globale, Milano, Marco Tropea Editore, 2003
5) Pierre Weltz, in J. Ziegler op.cit., p. 31.
6) Fonte: http://www.storiairreer.it/Materiali/Complessita_Presente/latouche.pdf
7) Hofstede ha classificato la cultura secondo cinque dimensioni: la distanza dal potere,l'individualismo, la mascolinità, il rifiuto dell'incertezza, l'orientamento a lungo termine. A ciascuna dimensione ha associato un indice numerico che favorisce la confrontabilità fra culture nazionali diverse.
8) T.L.Friedman, op. cit., p. 43
9) Il Sole 24 Ore, Il made in Italy che abbassa i volumi, articolo del 30 settembre 2013
10) Repubblica, Made in Italy: l'export stenta ancora, articolo del 28 settembre 2013
11) Fonte: Interbrand
12) Friedman, op. cit, pag. 14
BIBLIOGRAFIA
L. T. FRIEDMAN, Le radici del futuro. La sfida tra la Lexus e l'ulivo: che cos'è la globalizzazione e quanto conta la tradizione, Milano, Mondadori, 2001
P. HERBIG P., Marketing interculturale, Milano, APOGEO, 2003
J. ZIEGLER, La privatizzazione del mondo, Milano, Marco Tropea Editore, 2003

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