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Il maestro Antonio Mombelli (Alberto Sordi), sempre in equilibrio tra una dignità incatramata addosso, eppure invisibile agli occhi altrui, e un lavoro inadeguato alle attese della moglie Ada (Claire Bloom), rinuncia al grande salto finché uno dei consueti ricatti della moglie non riesce a fargli rinunciare all’ultima certezza. Così, a pochi mesi dal minimo necessario ad ottenere la pensione, Mombelli diventa dipendente, oltre che della società tra cui non sa inserirsi, anche della moglie e del cognato. Ma, se fratello e sorella non spadroneggiano sulla sua vita, il maestro sente in ogni caso la propria inutilità e avverte l’aumentare della distanza, oltre che dalla moglie, anche dal modello di vita che la donna gli impone. Incapace di gestirsi questa passerella di sguardi, l’uomo commette l’errore di rivelare alcuni aspetti della nuova attività, mandando a monte un progetto che stava portando comunque buoni frutti. È a questo punto, in modo particolare, che il film si allontana dal romanzo. A noi, qui, non interessa misurarne la distanza; noteremo però che l’essere più sbrigativo rende qui il finale generico e astratto. Se la loquela del maestro, ricca e nervosa, viene gonfiata in un sogno fino a esser più turgida e liscia, l’intreccio di pubblico e privato nella vita dei personaggi assume toni farseschi, che rendono la versione cinematografica forse più scorrevole, ma meno pregnante. In particolare, mentre l’interesse documentaristico di Mastronardi puntasse a rappresentare una situazione statica, paludosa, come sempre accade in "periferia", per cui il grande salto della famiglia Mombelli sarebbe valso come una scalata personale al successo, nel film di Elio Petri prevale il ritratto di un mondo che sta cambiando.
Non c’è l’arte di arrangiarsi, né viene valorizzata la creatività, dote intellettuale che ha fatto la fortuna di molti personaggi meridionali, in special modo nel dopoguerra; c’è solo l’arte di produrre, e di produrre oggetti che, nella zona, sono uno status symbol, le scarpe. Non c’è gioia per il progresso, solo una resa all’inevitabilità del suo dominio, come può evincere dalle parole che Ada dice al marito quando questi nota la differenza con la donna che aveva sposato: Non sono io che sono cambiata, sono i tempi che sono cambiati. Ma Ada è solo una variante di rifiuto della propria posizione, solo una donna che lavora per cambiarla. C’è anche, almeno, Nanini (Guido Spadea), eterno supplente incapace di superare il concorso magistrale, disadattato quasi per antonomasia a quel che è e al ruolo che potrebbe avere in un futuro. Tutti aspirano a un mondo migliore, senza osare sognarlo, perché, come dice il giovanissimo e già smaliziato Rino Mombelli (Tullio Scavazzi): Ma non sognare, papà, la vita è fatta di ben altre cose.
Il maestro di Vigevano è un film di gente che impara a stare al mondo, senza essere poi troppo certa del mondo in cui va a stare. Un mondo di fatica, di cui, però, il maestro, riesce a filtrare l’essenza: Darsi tanto da fare per non essere umiliati non è più umiliante di qualsiasi umiliazione? Sarà per questo, forse, che nel film di Elio Petri (più ancora che nel romanzo di Mastronardi), rimane in bocca il sapore di un’agitazione piatta, bonacciona e un po’ inutile, senza dramma e senza esito. Il tutto nel segno della massima che sempre ripete il Dir. Isp. Dott. Prof. Pasquini: Quieta non movere et mota quietare: si nega la possibilità di uscire dal torbido, ma soprattutto si nega l’utilità e il senso stesso di un lavoro, qua e là privato della sua utilità e svilito a medaglia sociale, orpello o necessità senza valore.
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