Il maestro, il terrorista, il terrone di Giancarlo De Cataldo

Creato il 13 dicembre 2011 da Funicelli
La storia del nostro Risorgimento, che ha portato al compimento dell'Italia unita, è un'avventura piena di eroi, tradimenti, ricatti, attentati, spie, opportunisti e doppiogiochisti. Azioni di politica degne del miglior Machiavelli, come gli accordi sottobanco tra i regni europei tessuti dalla diplomazia di Cavour, ma anche gesta eroiche, come l'impresa fallimentare (ma che pure diede il suo piccolo contributo per l'unificazione) di Carlo Pisacane.
Quanto è lontano, il Risorgimento che è stato veramente, dalla storia come viene raccontata dai libri di testo: un'arida sequenza di date ed episodi. Dove i ritratti dei principali personaggi citati (
Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi, il conte Camillo Benso di Cavour, il re Vittorio Emanuele) danno un'immagine buona solo per i musei ma non spiegano veramente chi fossero, cosa pensassero, quali motivazioni li spingessero ad agire. Mazzini poi, l'uomo più ricercato dalle polizie europee per i suoi piani di eversione, mal si concilia con la staticità di un busto o di una statua. 
Difficile appassionarsi e aver voglia di conoscere la nostra storia di fronte a queste premesse.
Il libro di Giancarlo De Cataldo colma la lacuna storica sul periodo risorgimentale, andando a raccontare in modo scorrevole e piacevole le vite di tre dei personaggi che hanno fatto la nostra storia.

Il maestro, Giuseppe Mazzini. Il terrorista, Felice Orsini. Il terrone, Carlo Pisacane. Senza di loro, senza le loro idee, la loro passione, le loro gesta (anche le bombe, in un certo senso), forse vivremmo oggi ancora in un Italia dei principati, senza essere un popolo unito. Certo, in parte è così, visto che ancora oggi l'Italia è divisa tra nord e sud, siamo più attaccati al campanile che non allo Stato unitario, ci sentiamo più lombardi che italiani. Ma questo non è colpa né di Mazzini né degli altri. Colpa semmai di come l'unità politica è stata portata avanti dalle classi imprenditoriali e politiche post unità: la spoliazione del sud, politici come Francesco Crispi passati da rivoluzionari a conservatori, la repressione del brigantaggio (spesso sconfinata in atti di genocidio) che ha allargato le ferite e le distanze tra le parti del paese. 
“Fatta l'Italia, ora dobbiamo fare gli italiani” la frase di Massimo D'Azeglio, che pure contiene una dose di cinismo. Per fare l'Italia, allora, è bene conoscere la sua storia, come è nata, da quali persone e ideali è nata. Da quanta passione, furore, idealismo, coraggio e anche incoscienza (molti degli eroi della patria donarono la vita ancora giovani, nelle cinque giornate di Milano nel 1848 o sulle mura di Roma per difendere la Repubblica nel 1849) ha avuto origine quell'entità geografica, storica e culturale chiamata Italia. Cominciando magari, dal maestro, dal terrorista, dal terrone.
Se l'unità è stata possibile grazie all'accordo tra il Savoia e Napoleone III, che appoggiò la seconda e la terza guerra di indipendenza contro gli austriaci, se la presa di Roma (con la breccia di Porta Pia) fu possibile grazie alla sconfitta dei francesi con la Prussia nel 1870, non dobbiamo dimenticarci questi tre rivoluzionari:

Tutti e tre consacrarono la propria esistenza a un'utopia, senza calcolo né meschinità. Orsini finì ghigliottinato, Pisacane trucidato dalle bande borboniche, Mazzini esule e mai riconciliato. A prima vista, tre grandi sconfitti dalla Storia. Eppure, senza la fede del Maestro, la violenza del Terrorista e la lucida disperazione del Terrone, quell'utopia non si sarebbe mai realizzata. Se siamo italiani, oggi, lo dobbiamo anche a loro. È giusto ricordarli. Perché la memoria delle loro gesta è un prezioso stimolo per l'agire quotidiano, e un eccellente antidoto alle miserie del presente”.
Alcuni episodi storici, citati dall'autore meritano di essere ricordati: il ruolo della
contessa Virginia Oldoini di Castiglione, giovane spia al soldo di Savoia e dei Cavour, che quest'ultimo mise “nel letto” di Napoleone IIIper carpirne i piani e spingerlo ad una allenza, come una escort dei tempi moderni (che forse tanto moderni visto l'andazzo non sono).
La fuga rocambolesca di Felice Orsini dal supercarcere austriaco di Mantova: in un primo tentativo compiuta anche attraverso dell'oppio (da dare ai carcerieri) che Mazzini gli fece arrivare dentro i bottoni di un cappotto.
Le prostitute romane, che vennero usate come infermiere (con buon successo) durante la difesa della repubblica romana contro i francesi.
La fine dell'eroico Carlo Pisacane (nobile, come tanti dei rivoluzionari risorgimentali), ucciso (o suicida) dai contadini cilentani di Sanza, arringati da un prete borbonico. 
Non erano ancora pronti per la rivoluzione, per il riscatto, per alzare la testa dalla miseria e dall'ignoranza. Infine, le parole di sconfonto di Giuseppe Mazzini, che fortemente volle la repubblica, ma si alleò (in un certo senso) anche col re, pur di fare la rivoluzione.
Nel 1857, a proposito della situazione politica in Italia, Mazzini scrisse: “Senza una bella tempesta che spazzi via tutto non c’è speranza. L’aria è inquinata. Le parole hanno perso il loro significato. Si è perduta ogni regola di veridicità e di morale politica.”
Le descrizioni dei personaggi (prese dal sito di Laterza).

Mazzini, perennemente a corto di quattrini come tutti i rivoluzionari che si rispettino, eredita, per altre vie familiari, una cospicua somma. La madre si accorda con alcuni amici fidati, e gli fa avere i soldi col contagocce. Avarizia genovese? Tutt'altro. Lungimiranza femminile. Il fatto è che Mazzini, quando ha una lira, un tallero, un franco o una sterlina, li spende immancabilmente tutti per la causa. Organizza prestiti di guerra, compera armi che cerca di contrabbandare in Italia, paga informatori per sapere che cosa combinano austriaci e francesi, mantiene famiglie indigenti, assiste bambini senza casa... tutto, insomma, per la Causa.
All'anagrafe Orsini fa Teobaldo Orso Felice. Teobaldo è il santo patrono della Carboneria: tributo al padre Andrea Orsini, originario di Lugo, piccolo possidente, prigioniero di Napoleone il Grande in Russia, cospiratore. Orso è un altro tributo. A uno zio, Orso Orsini, che sta dall'altra parte: è, infatti, un acceso sanfedista, un reazionario militante. Avrà grande importanza nella vita di Felice, perché sarà lui a crescerlo ed educarlo. E a salvarlo dalla galera, come presto vedremo. A ogni modo, il nostro sceglie di chiamarsi Felice, forse per non far torto né al diavolo né all'acqua santa, e avvia la propria carriera di rivoluzionario di professione con un omicidio.

L'avventurosa fuga da San Giorgio, la beffa ai danni degli austriaci fa di Orsini un personaggio leggendario. A Londra viene accolto come un profeta dai rivoluzionari di tutto il mondo. Le signore si contendono il suo letto. Agli angoli delle strade campeggiano suoi ritratti, appesi ai lampioni a gas che stanno mutando la geografia urbana della metropoli.


Otto morti, centoquaranta feriti, un numero imprecisato di cavalli avviati al macello. Il bilancio dell'attentato di rue Lepelletier è impressionante, anche per un'epoca nella quale i potenti sono avvezzi a guardarsi dai pugnali degli oppositori. Napoleone III, poi, è un professionista della sopravvivenza: per qualche oscura ragione, a tutti quelli che hanno provato a toglierlo di mezzo, è sempre andata male.


Bello e di fiero aspetto, Pisacane, sebbene nato barone, era in quel momento il leader politico-militare più vicino alle idee di Carlo Marx. Si era accostato al socialismo leggendo, anni addietro, il Manifesto di Marx e Engels. Aveva anche intrattenuto, sul punto, un'affettuosa polemica con Mazzini, del quale era, più che amico, devoto.


Cavour era un uomo grasso, di umore ondeggiante fra la cortesia sabauda e improvvisi scatti di collera accompagnati da autentiche crisi pantoclastiche (pare che perdesse addirittura il controllo della parola, in quei momenti), inesauribile tombeur de femmes (uso non a caso il francese, visto che Cavour, D'Azeglio e compari conversavano fra loro e si scrivevano in francese, e si consideravano, e si sarebbero sempre considerati, molto più francesi che italiani). Da qualche anno era il vero e proprio capo assoluto del Piemonte: re Vittorio Emanuele lo temeva, lo rispettava, ma non lo amava.
La scheda del libro, da cui ho ripreso alcune citazioni, sul sito di Laterza editore.
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