La maiscoltura tricolore ha perso il primato europeo
La maiscoltura tricolore ha perso il primato europeo e i suoi profitti dipendono ormai dal premio Pac che ben presto potrebbe scomparire. Uno scenario a tinte fosche. E, sullo sfondo, due soluzioni che non convincono
C’è un dato che più di tutti fa impressione tra quelli che ci aiutano a fotografare il mondo del mais italiano: nel 2011 le importazioni nette di questo cereale si sono attestate al 23% della domanda totale, dopo decenni in cui l’Italia era di fatto autosufficiente. Alla luce di questo dato, i costi di importazione dei cereali per mangimi animali hanno annullato i ricavi dell’esportazione dei nostri prodotti tipici di origine animale. Alla base di questo dato c’è un problema di produttività, figlio diretto di un disperato bisogno di redditività. Un’esigenza certamente comune a molti altri settori agroalimentari, che però, nel caso della maiscoltura, diventa condizione indispensabile per la sopravvivenza stessa della filiera. Per decenni fiore all’occhiello dell’agricoltura italiana, ma che da qualche anno è stata superata, in termini di produzione e resa, da altri Stati europei, primo tra tutti la Spagna.
Dai produttori si leva quindi un appello per individuare sistemi che aumentino i loro redditi e coprano i costi di produzione. Ma le soluzioni – varietà Ogm e biogas – potrebbero rivelarsi medicine peggiori della malattia da curare.
La resa non cresce più
I dati Istat segnalano nel 2011 una produzione di 9,6 milioni di tonnellate, in ripresa rispetto al triennio orribile 2008-2010, ma comunque quarto peggiore risultato degli ultimi 15 anni. Le superfici coltivate tornano a superare la soglia psicologica del milione di ettari. Ma a preoccupare gli analisti sono i dati delle rese per ettaro: «Nonostante siano in ripresa rispetto al 2010 – spiega Dario Frisio, ordinario di Economia ed Estimo rurale all’Università Statale di Milano – la crescita inarrestabile avuta fino agli anni ’90 si è ormai fermata». Un confronto con la Spagna: nel 1993 la resa per ettaro era di 85 quintali contro i 93 dell’Italia. Nel 2011 il mais iberico è cresciuto a 105 quintali per ettaro mentre quello italiano si è fermato a 94.
Imprese troppo piccole costi in salita
Una situazione già complicata per i produttori nostrani, resa ancor più difficile dalla struttura delle aziende italiane e da costi di produzione spesso superiori ai prezzi di vendita. «Le imprese italiane – conferma Frisio – sono ben più piccole dei loro concorrenti esteri». 103 mila delle 154 mila aziende agricole che coltivano mais in Italia (il 67% del totale) hanno un’estensione inferiore ai 10 ettari. «E più sono piccole, più è difficile per loro coprire i costi, soprattutto ora che i prezzi dei fertilizzanti, stabili per vent’anni, stanno avendo oscillazioni mai viste prima». Un solo esempio: il prezzo del fosfato doppio di ammonio è passato dai 280 dollari a tonnellata del gennaio 2007 ai 1200 del marzo 2008.
Ancora una volta, la colpa di questa oscillazione va ricercata nelle speculazioni mondiali sulle commodity agricole. I produttori sono quindi spinti a ridurre l’uso di fertilizzanti per abbassare i costi: «Ma così calano anche le rese e siamo obbligati ad acquistare all’estero il mais per coprire la domanda nazionale (circa 11 milioni di tonnellate)». Risultato: ad oggi, la redditività della maiscoltura è legata al beneficio del premio unico aziendale previsto dalla Pac (Politica agricola comunitaria). Tolto quel premio – cosa assai probabile con la prossima riforma della Politica agricola – il settore potrebbe entrare in una crisi definitiva.
Il futuro sarà Ogm?
Viste le premesse, è inevitabile cercare nuove strade per aumentare redditi e produttività. Ma, analizzate a livello globale, le soluzioni lasciano molti dubbi. Per fare profitti, oggi non c’è idea migliore che destinare il proprio mais agli impianti di biogas. Una manna dal cielo per i produttori italiani: minimizza i problemi di coltivazione e aumenta la garanzia di reddito. Per incrementare la produzione nazionale, l’alternativa pare obbligata: o aumentare le superfici coltivate oppure ridurre i vincoli all’uso di varietà di mais geneticamente modificate. «L’Italia – spiega Frisio – ha per decenni utilizzato semi proveniente dagli Stati Uniti, dove l’ambiente climatico è molto simile a quello della pianura padana. Ma dal 1996 il mais statunitense è quasi esclusivamente Ogm e questo ne ha impedito l’uso in Italia». Nel nostro Paese, tra l’altro, i vincoli sono più rigorosi che in altri Stati Ue: «L’uso di materiale genetico migliorato e la riduzione delle perdite in campo ha permesso alla Spagna di superarci in termini di rese. Se anche da noi si usassero tipi di mais più resistenti ai parassiti la nostra produzione potrebbe superare i 100 quintali per ettaro».
Un tema delicato e controverso: se si rifiuta il ricorso agli Ogm, non rimane che pensare a uno stop all’uso di cereali per fini diversi da quello alimentare (leggi: biogas) sviluppando sistemi consortili che superino la frammentazione dell’offerta: «Sarebbero utilissimi per abbassare i costi e ridurre gli sprechi – conferma Frisio –. O si arriva a una migliore organizzazione sovra-aziendale oppure perderemo ulteriore terreno rispetto ai nostri concorrenti europei».