L' Editoriale:
IL MALE DIVERSO
di Fabrizio Luperto
(Amour - Regia: Michael Haneke)
Per salutare l'arrivo del nuovo anno insieme a I CINEMANIACI, ho pensato di proporre agli attenti e fedeli lettori una questione che potrebbe essere catalogata come "questione di lana caprina", "pelo nell'uovo" o forse anche "onanismo mentale per cinefili", tutte definizioni apparentemente negative, ma che rappresentano, spesso, "la specialità della casa" per i cinefili militanti duri e puri.
Questo mio intervento prende spunto dalla casuale lettura dell'editoriale apparso nel numero di novembre sui Cahiers du Cinèma a firma del direttore Stèphane Delorme riguardante il film Amour ed ha come unico scopo quello di fornire alcuni elementi di riflessione e magari avviare un piccolo dibattito/confronto.
Delorme non va per il sottile quando afferma: "Vedere difesi e persino definiti umanitari dei film insopportabilmente misantropi". La bibbia del cinema attacca frontalmente il regista grazie alla tesi secondo la quale la bravura di Haneke servirebbe a "legare lo spettatore alla sedia del cinema" per fargli subire passivamente quello che avviene sullo schermo.
Quale sarebbe l'accusa rivolta al film trionfatore dell'ultimo festival di Cannes?
Probabilmente per mia inadeguatezza ho impiegato diverso tempo a individuare con precisione il "capo d'accusa" e dopo aver letto un paio di volte le tante dotte riflessioni poste sul piatto sono giunto alla conclusione che l'accusa rivolta ad Haneke e al suo ultimo film può così essere riassunta: L'ANDAMENTO (sceneggiatura e montaggio) DEL FILM ANNULLA LA CAPACITA' DI REAZIONE DELLO SPETTATORE, INDIRIZZANDONE LE EMOZIONI. Emozioni, che visto il ragionamento, oltre che veicolate, rischiano di essere quasi esclusivamente istintive, cioè dettate dall'emozione del momento.
Questo sarebbe avvenuto perché Haneke, con il suo ultimo film, non avrebbe fornito allo spettatore nessuna "via di fuga" costringendolo a confrontarsi con il male descritto in Amour.
Bene, prima di tutto "legare lo spettatore alla sedia del cinema" mi pare essere un gran risultato per qualsiasi regista e poi, probabilmente è la frase più inflazionata per l'uso che la critica cinematografica ne ha fatto proprio per esaltare la bravura di Heneke in riferimento al film che lo ha reso celebre, cioè Funny Games.
Altro punto da chiarire (e tenere sempre presente) è la compiaciuta freddezza/distacco che contraddistingue l'intera opera di Haneke, che in egual misura rappresenta il punto di forza del regista (per i suoi estimatori) e il motivo principale per il quale viene attaccato (dai suoi detrattori).
Chiarito questo (spero), cerchiamo di andare avanti seguendo un filo logico.
A mio parere, Haneke, da sempre, ha rifiutato una certa mercificazione della violenza, tanto cara al cinema hollywoodiano, ne è inconfutabile prova Funny Games US version, dove gli americani, che avevano scoperto M. Haneke solo di recente, grazie alla retrospettiva a lui dedicata dal Museum of Modern Art , avevano ingaggiato il maestro europeo per il remake di Funny Games, che nelle intenzioni dei produttori americani probabilmente doveva essere qualcosa da accostare al genere Torture-porn, quello di Hostel e Saw per intenderci, che tanti soldi ha fruttato al botteghino. Una volta ingaggiato, pero', Haneke ha girato un auto-remake (che non a caso ha voluto chiamare U.S. Version) "sfidando" la produzione, rifacendo provocatoriamente scena per scena lo stesso film del 1997, probabilmente per ribadire la sua dimensione di autore.
Ne consegue, che provocare/indurre REAZIONI ISTINTIVE, tramite la rappresentazione esplicita del male/violenza non è nelle intenzioni del cinema di Haneke, dove il male avviene quasi esclusivamente fuori campo, come si può facilmente notare riportando alla memoria oltre al già citato Funny Games, le misteriose morti de Il nastro bianco e le inquietanti inquadrature della casa dei protagonisti di Niente da nascondere, giusto per fare degli esempi riguardanti il cinema più recente del maestro.
Nel cinema di Haneke il terreno dove il male gioca la propria partita è spesso invisibile, mai accessibile dall'occhio dello spettatore. Il contrario (questo si) , farebbe di Haneke un regista che cerca nello spettatore REAZIONI ISTINTIVE che possono essere facilmente provocate ma che durano giusto il tempo della pellicola.
In effetti, con Amour qualcosa è cambiato. Haneke ha portato il proprio pubblico nella (fino ad oggi) impenetrabile visione del male.
Trattasi però della violenza della natura, di un male che non si può combattere, tra l'altro mai spettacolarizzato.
E siccome la natura è sempre insensibile nei confronti dei problemi che può provocare agli uomini ecco che il male di Haneke diventa inevitabile, quindi impossibile sfuggirgli e per questo motivo obbliga lo spettatore ad entrare nella casa dei protagonisti preoccupandosi di chiudere la porta a doppia mandata (significa questo "legare lo spettatore alla sedia del cinema" ?). Haneke, chiede al proprio pubblico di restare dentro l'appartamento insieme a Georges, vuole (finalmente?) mostrarci il male.
Si badi bene, che quello che chiede Haneke al proprio pubblico lo chiede con onestà, troppo semplice sarebbe stato inserire sequenze come quelle viste in Vergiss dein Ende di Andreas Kannengiesser, e probabilmente in quel caso l'accusa di indirizzare lo spettatore verso reazioni "di pancia" sarebbe stata legittima.
Si tratta, dunque, di un male "diverso" questo, si visibile, perchè riguarda tutti, e forse il regista spera che tutti, abbiano il coraggio di confrontarsi con esso, cioè con la vita.
A modesto parere di chi scrive, in Amour niente è ingentilito e pochissimo è adulterato, perchè quindi accusare la pellicola di indirizzare le emozoni dello spettatore? Le reazioni dinanzi al male, quello vero, possono essere misurate da ognuno realmente sulla propria pelle durante la propria esistenza e c'è da giurarci avranno mille sfaccetature diverse. Da quanto sopra scaturiscono i perché la critica de Cahier du Cinèma non mi trova d'accordo.
Dalla tesi sostenuta dalla rivista emerge la poca fiducia nello spettatore, al quale viene quasi negata a priori la possibilità di provare a misurarsi con un film che rappresenta uno scampolo di realtà affermando che le emozioni provate saranno indirizzate verso i lidi voluti dal regista, relegando allo stesso tempo Amour in quella porzione di cinema che si accontenta di mettere a segno un paio di pugni nello stomaco dello spettatore, quando in realtà il capolavoro di Haneke è una stilettata di precisione chirurgica, straziante e umana che colpisce al cuore.
In definitiva, se Haneke lascia fuori campo il male/violenza e si limita ad osservare l'azione/reazione dei protagonisti risulta essere freddo-distaccato-calcolatore (che piaccia o meno allo spettatore poco aggiunge alla discussione); se invece porta il male/violenza sullo schermo per i Cahiers du Cinèma diventa un regista che mette in scena film "insopportabilmente misantropi".
Evidentemente a nulla serve, per la gloriosa rivista francese, la diversa natura del male rappresentato, non più frutto di comportamenti sbagliati, follia, malvagità degli uomini (come nei precedenti film) che colpisce esclusivamente le vittime designate, ma, come in Amour, frutto della vita stessa e che ci rende tutti potenziali vittime.
Ora, affinché ognuno abbia la propria personale risposta, basta ripensare alla filmografia di Haneke e ricordare il film chè più vi ha fatto riflettere nel lungo periodo, il film che più vi ha fatto pensare a come vi sareste comportati se foste voi i protagonisti della vicenda, il film che ha coivolto più la vostra testa che la pancia. Se la risposta sarà Amour, forse oltralpe hanno sbagliato qualcosina, al contrario, sono io quello che deve dormire di più.
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