“ Portava abiti neri, sgraziati e macchiati. Pareva non vedesse nulla davanti a sé, spesso urtava i tavoli passando. Senza cappello, i capelli corti, irti e spettinati le creavano ali di corvo intorno alla faccia. Aveva un gran naso da ebrea magra, la carnagione giallastra usciva da quelle ali sotto occhiali cerchiati d’acciaio. Metteva a disagio: parlava lentamente, con la serenità di un’indifferenza totale; la malattia, la stanchezza, la miseria o la morte non contavano nulla ai suoi occhi. Supponeva a priori negli altri il più calmo distacco. Esercitava un fascino, e per la sua lucidità, e per le sue idee da allucinata”. Georges Bataille, L’azzurro del cielo (Einaudi)
” Uccello senza corpo, piegato su se stesso, in una mantellina nera, gli scarponi neri pesanti; silenziosa, straniera e indagatrice, seduta in disparte, brutta a prima vista, almeno da adulta; il corpo assente, devastata dalla miopia, con gli occhi protesi a osservare il mondo da siderale distanza e acuta prossimità, avevi l’impressione di trovarti davanti ad un corpo estraneo, forse maledetto, e così poco umano. ” Jean Tortel **
“Il grande enigma della vita umana non è la sofferenza, ma l’infelicità. Non stupisce che degli innocenti siano uccisi, torturati, cacciati dal loro paese, ridotti in miseria o in schiavitù, rinchiusi in campi o in prigioni, poiché esistono criminali capaci di compiere queste cose. Non stupisce nemmeno che la malattia costringa a lunghe sofferenze che paralizzano la vita e fanno di essa un’immagine della morte, poiché la natura è sottomessa a un gioco cieco di necessità meccaniche. Ciò che stupisce è il fatto che Dio abbia permesso all’infelicità diafferrare l’anima degli innocenti e di impadronirsene totalmente ” Simone Weil, L’amore di Dio, pp. 163-164
Malheur significa catatastrofe, avversità, sfortuna, disastro, cataclisma. Malheur è nel lessico weiliano, l’«esperienza dell’infelicità che è presente nel mondo come una realtà dolorosa inevitabile, di cui non si riesce a dare una spiegazione» - 1* - Leggere Simone Weil ha per me significato un incontro ravvicinato con questa sorta di infelicità , infelicità che a detta della Weil , è un’infelicità che “ è prima di tutto anonima, priva le sue vittime della loro personalità e le trasforma in cose “ e che sebbene riconduca ad un’accezione prettamente negativa e pessimistica della condizione umana, Simone Weil ha cercato di affrontare sul piano di quella che Schelling chiama filosofia positiva , ovvero una filosofia che si spiega non appellandosi al piano razionale ma su quello della fede e della rivelazione.
Simone Weil , coetanea e compagna di scuola di Simone de Beauvoir, che numerosi critici, giornalisti, studiosi e religiosi hanno posto su svariati piani di critica definendola “ eretica”, “ profetica “ , “ inafferrabile”, “ rivoluzionaria”, “ mistica”, “ guerriera”, “ anticlericale”, “ genio solitario”, e che ancora Bataille definì ” vergine sporca ” e ” spaventapasseri al centro del campo “ è per me una pura anarchica trascendente, una ribelle sensibilissima e ardita innamorata dell’idea di perfezione e dell’impossibile ; una combattente che con immenso coraggio ha scelto di indagare la voragine della fragilità umana e del paradosso che governa la vita. Ella stessa dice “La grandezza dell’uomo sta nel ricreare continuamente la propria vita, nel ricreare continuamente ciò che gli è dato. Bisogna compiere tutto il possibile per sfiorare l’impossibile. “ E l’impossibile per la Weil diventa la dimensione sacra a cui tendere, la dimensione posta a distanza infinita da raggiungere perfezionandosi in vita sempre più. Scrive : ” Sono convinta che l’infelicità per un verso e la gioia per l’altro verso, la gioia come adesione totale e pura alla bellezza perfetta, implicano entrambe la perdita dell’esistenza personale e sono quindi le due sole chiavi con cui si possa entrare nel paese puro, nel paese respirabile, nel paese del reale. “ Non c’è dubbio che leggere le parole della Weil significa dunque voler affrontare la dura esperienza di immergersi nella materia della violenza che pervade la vita e cercarne insieme a lei lo scudo contro l’inquietudine perpetua, l’arma per comprendere e affrontare i limiti terreni umani e mettere così anche in discussione il proprio credo religioso, le convenzioni e i propri punti di riferimento. «Amare la verità – scrive in L’ombra e la grazia – significa sopportare il vuoto; e quindi accettare la morte. La verità sta dalla parte della morte». Le opere di Simone Weil costituiscono uno scandaglio doloroso sul l’andamento tormentato dell’amore e dell’amicizia, la politica e il lavoro. Però non solo questo. L’incontro con la Weil costituisce anche una chiave per entrare in un universo dove il concetto di poesia permea ogni campo, dove il finito diventa infinito perché infinita è la ricerca e ossessiva, l’indagine verso la verità. Il suo è un percorso che non ammette nessuna circoscrizione o ipotesi finita delle cose, perchè è proprio la dimensione finita in terra a decreta la morte di ogni concetto, di ogni cosa. Forse proprio per questo, in quest’assunzione magnifica eppure impossibile , nel non ancorarsi dunque ad alcuna tradizione, che la sua riflessione è spesso contraddittoria, ed il lettore stesso è parimenti combattuto dall’inquadrarla propriamente in un campo mistico o estetico, piuttosto che in uno filosofico . Le sue opere riflettono la sua breve vita , una vita per nulla ordinaria e un pensiero segnato dal dolore . Si dichiara comunista a dieci anni, sfiora il suicidio a tredici, e per anni sperimenta per anni il duro lavoro in fabbrica. Soffre di anoressia ed evita qualunque tipo di contatto fisico, si fa battezzare con l’acqua di un sanatorio da un’infermiera in punto di morte. Amante di Platone critica Marx , e si fa portatrice di un cristianesimo senza Bibbia e senza chiesa. Scrive: “Si rimprovera spesso al cristianesimo una compiacenza molle nei confronti della sofferenza e del dolore. E’ un errore. Il fulcro del cristianesimo non è tanto il dolore e la sofferenza, sensazioni e stati d’animo in cui è sempre possibile gustare una voluttà perversa, quanto l’infelicità. L’infelicità non è uno stato d’animo. E’ una polverizzazione dell’anima dovuta alla brutalità meccanica delle circostanze. La degradazione che un uomo subisce di fronte a se stesso, passando dallo stato umano a quello di un verme schiacciato che si agita sul terreno, non è cosa di cui possa compiacersi nemmeno un pervertito; tanto meno un saggio, un eroe o un santo. L’infelicità è ciò che s’impone ad un uomo suo malgrado. Essa ha per essenza e per definizione l’orrore e la ribellione di tutto l’essere di colui del quale essa s’impadronisce. A tutto questo bisogna acconsentire per mezzo dell’amore soprannaturale “.
Il malheur domina tutti gli scritti di Simone Weil, inquietudine e malessere di chi ha assunto l’inarrivabilità della bellezza e della perfezione come verità. Scrive ” “La bellezza del mondo è il tenero sorriso che il Cristo ci rivolge attraverso la materia… Quaggiu i figli di Dio non devono avere altra patria se non l’universo stesso.E’ questa la citta natale che ha diritto al nostro amore”
La produzione poetica di Simone Weil, sebbene apparentemente costituisca una parte molto esigua rispetto all’opera complessiva costituisce una preziosa testimonianza del suo pensiero. E’ l’eco del suo canto votato al ” vuoto ed al distacco, all’esercizio alla morte, all’eterno sacrificio”- 2. – con cui ella sceglie di misurare e raggiungere la propria identità. E’ un canto dalla grazia sublime, a prima vista permeato da sostanza fragile e dolorosa, ma che è in verità un grido di coraggio dalla radicalità estrema che brilla assoluto e terribile in quella che è forse la soluzione della sua ricerca : lo scontro del bisogno e dei desideri dell’essere umano con la lacerazione inevitabile che si riporta in vita.
A UN GIORNO
Spunta il giorno dalle brume
Oltre le cime dei monti.
L’universo si libera dai sogni;
Che appaia! Dèmoni addio!
Quando la luce pallida e gelata
Penetra l’anima, d’improvviso traversata
Dai suoi raggi laceranti,
Dal filo d’erba, esile, rabbrividito,
Salga un silenzio sterminato
E si mescoli ai deserti trasparenti!
Come potrebbe il cuore non spezzarsi
Se l’improvvisa e dolce scossa del mattino
Dissipa l’ombra dell’infinito agitarsi
In dubbi, rimorsi, paura del destino?
La grazia lo ferisce; sanguina
Davanti alla pianura dove l’acqua stende
Una coltre di nebbia delicata
Sul ramo spoglio e tremante.
Sull’ala sospesa ed esitante,
L’aria da un debole lampo inondata.
Giorno che nasci, colmo di rugiada,
Così chiaro nell’anima e nei cieli,
Tutto questo splendore che si posa
Ovunque come una carezza
Limpido a noi sarà di tenerezza.
La sera che l’aria fluida ha traversato
Ne colmerà l’umido prato.
Ma prima ancora che la notte scenda,
E in mezzo a noi calma si stenda,
O giorno, come sarai sporcato!
*
Ogni minuto, giorno che trascorri!
Quando fugge con un volo muto
Dietro di sé lascia una vergogna
Che raccoglie l’istante nascente.
Ovunque una bocca appena spalancata
D’un fiato viene a offuscare
I giorni e le dolci stagioni
Di chi fino a ieri visse senza pianto
Ed ora ha soltanto ansie,
Vana fatica, miseria e prigioni.
Che forza stordisce i destinati
A cui l’oro, il ferro, la sorte, le leggi
Schiacciano anni interi
Nello spazio angusto di una voce!
Quando da labbra altere
Cadono sulle folle prigioniere
Parole che il tempo fa pesanti,
L’ora crolla e incenerisce,
Una luce le palpebre colpisce,
Separata dagli istanti.
Perché ferisci con la tua aurora
Gli occhi dei vinti, giorno morto appena nato?
Essi son stanchi di vedere ancora
Un sole che brilla condannato.
Il giorno morto è lungo assai per un vivente.
L’alba comanda di seguirne amaramente
Senza esitare la corsa spaventosa.
Il cuore, le ginocchia vengono a mancare.
Pertanto eretti è necessario andare
Là dove l’anima non osa.
Mille volte mille anime deserte
Salutano il giorno già perduto.
Quelle migliaia di giorni inerti
Sono un misero giocattolo venduto.
Chi si trastulla, da fantasie abitato,
Lo sguardo perso nel fondo delle età,
Ignora che il giorno è appena nato.
L’alba e la sera sono soltanto errore
Se come una spada non penetra nel cuore
Una breve pace luminosa.
Ciechi, ammucchiano e confondono
Passato, presente e avvenire,
Qualunque cosa facciano non sanno,
Nella loro fame di giorni e di anni,
Trovare la misura che li appaghi.
La loro mano crede, raggrinzita nell’ombra,
Di trattenere i secoli infelici.
Invano l’asse dei cieli è giusto.
Giorno fragile e sacro, giorno augusto,
Giorno, per loro non sei nato ancora.
Per chi, ahimè, nascesti?
Questi giovani esseri prostrati,
Volevi bagnarli d’aurora
Nei campi non ancora arati?
I volti ingrigiti dal fango,
Lontano da mani ad essi soli attente,
Sono alla terra incatenati,
La bocca aperta senza preghiera,
L’occhio insensibile alla luce,
Privi del loro diritto ai giorni.
Altri, nudi, sono coperti dalle gocce
Dell’alba in mezzo a delle strade.
Verso i passanti nella via
Tesero le loro vuote mani.
Come terra diventano pesanti
Le ossa che ha rosicchiato la miseria,
Che nessuna terra ha mai nutrito.
E altri, quanti giacciono ancora…
I giorni passati impediscono a loro
Di vederti, giorno che gli sorridi.
La pietra, giorno senza forza,
Tu non potrai traversarla.
Un muro ti sottrae a chi ti ama;
E muri di piombo peseranno
Fino alla notte sopra i petti.
Dal greve tumulto delle officine,
Dai mercati di carne da infangare,
Dal fondo di prigioni immutabili,
Salgono sguardi miserabili.
Qual raggio mai li bagnerà?
Tutto è serrato sulla folla oscura,
Il tremito scuote le membra incatenate.
Per i destini sottomessi all’ingiuria,
Per le forti tensioni umiliate,
Come ingrigisce la limpida pianura!
Anche dentro al tepore della brezza,
Perfino in cammino in mezzo al campo,
L’obbrobrio e lo stupore amaro
Interdiranno cielo e terra
Tutto quel giorno al giorno sorridente.
Ma più di notte grava la specie
Che brulica dentro le città
Di esseri dalla carne ottusa
Il cui spirito dorme sotto i lumi.
Solo la folgore li scuote
Quando a distruggere e annientare
Su loro cade e li trapassa.
Questo giorno felice appena nato,
Nessuno l’avrà conosciuto
Quando il suo corso sarà ormai cessato?
*
Debole sorriso luccicante di lacrime,
Esordio di un giorno in mezzo ai giorni,
Vieni, afferraci, libera dalle ansie,
Ascendi, illumina, accendi, accorri!
La tua fiamma slitta di ora in ora;
La tua ala d’un quieto lampo sfiora
Uno per uno i pallidi paesi.
L’aria è in fiore sulle tue tracce.
Che una volta per i lenti spazi
Si assista al tuo sgorgare!
Che l’alba richiami con angelico canto
Un cuore limpido e d’improvviso muto
Alla notizia dell’incanto
Che si sparge nell’aria palpitante.
Il lungo giorno sia per lui il patto
Che senza fine lega l’anima perfetta
Alla bilancia insita nei cieli.
O lungo giorno che avido berrà,
Trascorri e colmalo di un vuoto
Che lo renda identico agli dèi.
Invano tramonterà sulla pianura
Questa sera la suprema luce.
Invano il cielo muovendosi trascina
Le ore serene in altri luoghi.
Questo giorno di celeste silenzio
Dona per sempre al mondo immenso
Uno spirito colmo d’amore,
Anche se il suo momento si avvicina
E se la sorte cieca stabilisce
Che sia per lui l’ultimo giorno.
NECESSITA’
La ruota dei giorni dal cielo deserto si volgeIn silenzio agli sguardi mortali,
Gola aperta quaggiù, dove ogni ora inghiotte
Gridi così supplicanti e crudeli;
Tutti gli astri lenti nei passi della loro danza,
Unica danza immobile, lampo muto dall’alto,
Informi malgrado noi, senza nome o cadenza,
Troppo perfetti, senza mancanza alcuna;
La nostra collera è vana a quei sospesi.
Si calma la nostra sete se ci spezzate i cuori.
In desideri e grida la loro ruota ci trascina;
I nostri signori splendenti furono sempre vincitori.
Strappate le carni, catene di luce pura.
Inchiodati senza un grido alla fissità del Nord,
L’anima nuda esposta ad ogni piaga,
Noi vogliamo obbedirvi fino alla morte.
IL MAREMare docile al freno, sottomesso in silenzio,
Mare sparso, flutti per sempre incatenati,
Massa offerta al cielo, specchio d’obbedienza;
Vi tesse ogni notte nuove pieghe
La lontana potenza degli astri.
Quando il mattino colma l’intero spazio
Lo accoglie rendendo la luce in dono.
Un lampo leggero si posa in superficie.
Si stende in attesa e senza desiderio
Sotto il giorno che cresce, risplende e dilegua.
Di riflessi serali luccicherà improvvisa
L’ala sospesa tra il cielo e l’acqua.
I flutti oscillanti e fermi,
Dove ogni goccia sale e ridiscende,
Restano in basso per sovrano decreto.
Bilancia dai segreti bracci d’acqua trasparente
Trova in sé la misura, e schiuma, e ferro,
Giustizia invisibile per ogni barca errante.
Sullo scafo un filo azzurro traccia rapporti
Senza errore alcuno nella riga apparente.
Mare immenso, sii propizio agli infelici mortali,
Stretti ai tuoi bordi, persi sul tuo deserto.
A colui che affonda parla prima che muoia.
Entra nell’anima, o nostro fratello mare;
Donale la purezza delle tue acque giuste.______________________________________________________________Note :** : Tratto da un articolo de ” Il Giornale”1. cfr. Donatella Pagliacci2. Poesie A cura di Roberto Carifi- Edizione originale: Simone Weil, Poèmes
© 1968 Editions Gallimard
© 1993 Casa Editrice Le Lettere, Firenze