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Il mantenuto – terza e ultima parte

Da Olineg

Qui la seconda parte

Il mantenuto – terza e ultima parte

La signora Canova in Grandini amava farsi possedere davanti al senatore suo marito, un repubblichino che osservava in silenzio le manovre in un angolo della stanza, con gli occhiali scuri nonostante la penombra, e le mani giunte sul pomello del bastone. La Santareggi, vedova del presidente Altomare, amava i giochi di ruolo a sfondo politico; il più delle volte lei era una manifestante femminista e lui un poliziotto manesco. La Renati, erede della nota casa di moda e finanziatrice del partito, era cultrice del classicissimo idraulico, e con Domenico aveva perfezionato la variante dello stagnaro terrone. Alla Tedeschi piaceva farlo in macchina. Alla Perrone addirittura al campo santo. Voleva fare il mantenuto e si ritrovava a fare il gigolò per over-settanta. Guadagnava sì, è vero, ma non era un lavoro stabile e duraturo, considerata anche l’età media della clientela. Anche lui era un precario, come quelli della scuola, come quelli che protestarono in piazza quella volta che la contessa dei Folasca-Strozzi, dalla finestra della sua fondazione, mostrò ai manifestanti il suo nodoso dito medio. Forse doveva cambiare giro, area politica, forse doveva prendersi una vacanza, stare con una donna per piacere… l’idea di toccare una ragazza della sua stessa età, o addirittura più giovane, gli sembrò un’immagine lontana come quella dei ghiacci del polo. Ed ebbe un brivido. «Ecco a lei» disse Paola, la fioraia, porgendogli il mazzo di novantanove rose rosse destinato alla vedova Bernardi, che di anni ne aveva pochi meno. Invece Paola aveva un’età indefinibile. Domenico aveva notato che quando lei gli parlava, il suo tono di voce era più lieve, più delicato rispetto a quello riservato ad altri clienti. Forse aveva un debole per lui. E forse a lui non avrebbe fatto male una scopata pro-bono. Le afferrò la mano, con la scusa dei soldi, le agguantò il dorso, con arrogante sicurezza. Ma lei si ritrasse. Magari fu quella reazione inaspettata, oppure una sorta di scintilla chimica, fatto sta che Domenico ebbe un flashback. Ma non come quelli dei film. Una sola immagine, velocissima, come un gatto che ti taglia la strada. Quella psicologa, all’ospedale di Mogadiscio, glielo disse che col tempo gli sarebbero venuti alla mente frammenti della sua avventura in mare. E gli disse anche che un’esperienza come quella non si dimentica, e se succede è perché la mente ha voluto farlo, ad esempio perché ricordare risultava troppo doloroso, più di quanto la mente stessa potesse sopportare. Domenico pensava che si trattasse di una cazzata da universitari, di gente che non ha senso pratico, che non ricordava perché aveva battuto la testa, o per via dell’insolazione. Ma quello che aveva visto mentre Paola gli sfuggiva via, era troppo reale per essere un’illusione, quello che aveva ricordato gli fece troppo male per essere uno scherzo della mente: lui che si allontanava col gommone di salvataggio, mentre una svedese, quella che nel sogno gli apriva la porta della cabina, lo implorava di tornare indietro, la disperazione e l’inferno tatuati in faccia, mentre gli spari dei somali si mischiavano alle urla di terrore. E lui si allontanava. «Si sente bene?» chiese Paola. Lui mosse meccanicamente la testa in su e poi in giù. In su e poi in giù. Accanto alla cassa c’era uno specchio, si guardò; era ancora lui, ma dentro no, con un solo morso uno squalo si era portato via metà del suo corpo, un corpo che non si vede con gli occhi e non si riflette negli specchi. Era improvvisamente vecchio, ma non come le sue clienti, era di colpo stanco, ma non come dopo una scopata di lavoro. «Scusa» biascicò Domenico. Paola arrossì: «E per cosa?». Domenico guardò le labbra della fioraia vibrare, ma non percepì il senso di quella risposta imbarazzata. Non era, in fondo, il perdono di quella donna che chiedeva.

Fine



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