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Il marchio statunitense

Creato il 17 febbraio 2013 da Eurasia @eurasiarivista
Stati Uniti d'America :::: Francesco Viaro :::: 17 febbraio, 2013 :::: Email This Post   Print This Post IL MARCHIO STATUNITENSE

Tutti i regimi, democratici e non, hanno bisogno di poter influenzare, se non controllare, l’informazione per restringere la visuale della popolazione, ottenerne il consenso e indirizzare l’opinione pubblica. Si rivela dunque fondamentale il controllo della parola, essendo la lingua uno dei sistemi più sofisticati e raffinati di organizzazione della realtà esterna e interna e di creazione di senso.

Nel libro Psicologia delle comunicazioni di massa, di Pratkanis e Aronson, leggiamo che le parole hanno il potere di pre-persuadere, e che le parole e le etichette “che usiamo giungono a definire e a creare il nostro mondo sociale. Questa definizione della realtà dirige i nostri pensieri, i nostri sentimenti e la nostra immaginazione, e in tal modo influenza il nostro comportamento”.

Non è un caso se Zagrebelsky in Imparare democrazia scrive che “essendo la democrazia una convivenza basata sul dialogo, il mezzo che permette il dialogo, cioè le parole, deve essere oggetto di cura particolare”.

In un regime democratico, dunque, essendo esso basato sul dialogo, la lingua dovrebbe essere coltivata e curata con riguardo. Eppure qui già s’incontra un primo inciampo, visto che ormai democrazia e modello di sviluppo sono diventati sinonimi, perché la democrazia è diventata il veicolo per la realizzazione di questo modello. Il problema è che i mercati degli opulenti Paesi occidentali sono ormai saturi e la crisi sta complicando il quadro, visto che ci sono montagne di beni che non possono essere acquistati. L’esportazione della democrazia si presenta, così, come un’espansione verso nuovi mercati ancora vergini. Ed ecco quindi che in Afghanistan sono stati introdotti smart-phone e altri oggetti di alta tecnologia, nonostante manchino infrastrutture, il Paese sia fondamentalmente diviso e abbia come Presidente un uomo ben visto dall’Alleanza atlantica e nonostante non vi sia nel Paese alcuna cultura democratica diffusa.

L’11 settembre 2001 ha visto prosperare espressioni che sono diventate ormai bagaglio quasi quotidiano, come “guerra al terrore” e “missioni di pace”. Missione di pace indica un intervento militare in un Paese straniero e cerca di non evocare lo spettro della guerra, che la Costituzione Italiana ripudia come mezzo per la risoluzione di controversie internazionali.
Guerra al terrore dovrebbe, invece, indicare la lotta senza quartiere alle organizzazioni terroristiche che minacciano la sicurezza interna delle Nazioni, ma anche la guerra in Iraq è stata presentata come tale. Questo nonostante l’Iraq non fosse assolutamente uno Stato teocratico, ma dove anzi le minoranze religiose potevano praticare la propria fede. È stata, invece, l’invasione da parte degli Stati Uniti a farlo diventare una palestra per settari islamisti provenienti da diversi Paesi.

Per giustificare l’attacco all’Iraq, oltre all’invenzione di prove mai divulgate circa l’esistenza di armi di distruzione di massa, è stata addotta la “guerra preventiva”.  Ma la guerra preventiva, da un punto di vista giuridico, è una forma di legittima difesa, che “deve riguardare un attacco già in corso o del quale siano in corso i diretti preparativi, senza possibilità di equivoco, in modo tale che la risposta immediata data mediante un’azione armata risulti l’unica possibile. Evidenti, altrimenti, i rischi di abusi da parte di aggressori che, per giustificarsi, tendano ad indossare le vesti degli aggrediti” (1).

Non è un caso se la macchina dell’amministrazione Bush Jr. ha lavorato parecchio, per legittimare la strategia di guerra ai cosiddetti nemici della Libertà sparsi su tutto il globo.

Nel documento The National Security Strategy of the United States of America – September 2012, si lascia intendere che l’uso della forza è lo strumento principale per la risoluzione di controversie internazionali. Viene ribadito il compito di aiutare tutti i popoli a raggiungere i principi e gli ideali della società libera statunitense in tutto il mondo, ed è anche data una definizione degli Stati canaglia: sono guidati da dittatori che opprimono la popolazione per i propri privilegi, aiutano le organizzazioni terroristiche, sono dotati o cercano di dotarsi di armi di distruzione di massa. Tra tali Stati canaglia compare anche l’Iraq.

Afferma il giurista Marcelli: “La nuova dottrina statunitense dell’autodifesa preventiva costituisce senza dubbio un tentativo di ribaltare la disciplina dell’uso della forza contenuta nella Carta delle Nazioni Unite e in particolare nell’art. 2, para. 4, di essa. Data la natura imperativa e davvero fondamentale di quest’ultima norma, sulla quale poggia tutto il sistema internazionale esistente, il suo scardinamento dovrebbe o segnare il passaggio a una nuova fase storica, segnata dalla rilegittimazione della guerra come strumento delle relazioni internazionali e dal tramonto del principio della sovrana eguaglianza fra gli Stati, oppure costituire un gravissimo crimine internazionale”.

C’è ora da chiedersi: ci sono differenze tra la politica estera di questa amministrazione statunitense e di quella che l’ha preceduta? Ascoltando il programma “Analysis”, della BBC, andato in onda l’1.10, 2012 con il titolo “Obama: peacemaker or vigilante?” (2), viene ribadito come la politica estera del primo mandato di Obama sia in linea con quella del secondo mandato di George W. Bush.

Quando Obama venne eletto Presidente, il marchio Star and stripes era ai minimi storici, dopo otto anni di Bush, Rumsfield, Cheney, eccetera. Con la sua campagna presidenziale e la sua elezione, invece, il marchio è tornato a essere popolare. Come scrive Naomi Klein nella prefazione alla nuova edizione di “No Logo, “Obama è riuscito, chissà come, a essere sia una Coca-Cola sia una tisana naturale: è un megamarchio conosciuto e distribuito in tutto il mondo e allo stesso tempo un outsider che si è fatto da solo”.

E aggiunge: “Obama preferisce sempre il gesto simbolico grandioso al cambiamento strutturale profondo. Annuncia a gran voce che chiuderà Guantanamo e intanto dà il via libera all’allargamento del carcere di Bagram in Afghanistan e si oppone ai processi contro i funzionari di Bush che autorizzarono le torture. Nomina la prima giudice latinoamericana alla corte suprema e intanto fa approvare un nuovo giro di vite sull’immigrazione. Investe nell’energia pulita ma appoggia la favola del “carbone pulito” e rifiuta di tassare le emissioni di CO2, l’unico metodo davvero valido per ridurre il consumo di carburanti fossili. Si scaglia contro l’avidità dei banchieri e affida le redini dell’economia a veterani di Wall Street. E, soprattutto, promette di mettere fine alla guerra in Iraq, mandando in pensione l’orrendo concetto di “guerra al terrore”, mentre in Afghanistan e in Pakistan i conflitti ispirati da quella logica s’intensificano”.

Secondo Jameel Jaffer, direttore legale dell’American Civil Liberties Union, Obama avrebbe potuto chiudere Guantanamo, nonostante le forti resistenze dei Repubblicani, ma non l’ha fatto perché ha preferito sacrificare questo progetto per dedicarsi alla riforma sanitaria. Inoltre, qualcuno sostiene che, ad Obama, alcune misure di lotta al terrore dell’amministrazione che l’ha preceduta in realtà piacciano anche perché rientrano in una politica nazionale, che si è sviluppata nel corso degli anni.

L’amministrazione Obama ha intensificato l’uso dei droni, che costituiscono l’arma centrale della strategia contro il terrorismo. L’uso dei droni è però molto controverso e discusso, tanto che il Consiglio ONU su Diritti Umani ha annunciato che stanno iniziando un’inchiesta sul loro utilizzo, estendendola anche agli attacchi condotti con questi mezzi dall’esercito britannico in Afghanistan, e da quello israeliano a Gaza.
Obama ha poi incoraggiato e appoggiato le rivolte della primavera araba, ma al contempo, come sempre nella storia degli Stati Uniti, deve sperare che la situazione in Arabia Saudita rimanga ferma, deve cioè sostenere una politica di conservazione.

Per quanto riguarda l’economia, Obama ha rilanciato anche il progetto economico neoliberista e, pur presentandosi agli elettori come il difensore dei cittadini contro lo strapotere della finanza, prese più soldi da Wall Strett di qualsiasi altro candidato alla presidenza.

Tutti i presidenti degli Stati Uniti da Reagan in poi, e quindi Obama incluso, sono stati complici e coautori di uno smantellamento delle leggi a protezione degli investitori. Obama, infatti, non solo non ha ripristinato leggi a tutela degli investitori, sparite gradualmente a partire dall’amministrazione Reagan, ma ha confermato nei gangli delle istituzioni economiche finanziarie le stesse persone che generarono, o coprirono, la frode planetaria dei sub-prime, come Ben Barnake, nominato da George W. Bush come presidente della Federal Reserve, e proprio in quell’anno si verificò un’impennata delle vendite dei titoli tossici.

È stato notato come, nel secondo discorso inaugurale, Obama abbia tralasciato la politica estera. È certamente probabile che si possa concentrare su tutte quelle riforme interne che vuole portare avanti, anzi, così facendo, potrà deviare l’attenzione su quella politica e continuare con la tradizionale ostilità statunitense verso i nemici del disegno del nuovo ordine mondiale e intensificare l’attività dei droni in giro per il mondo, come sembra che avverrà in Mali.

* Francesco Viaro è laureato in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Padova.

 
1. http://www.giuristidemocratici.it/post/20030321170739/post_html

2. http://news.bbc.co.uk/2/shared/spl/hi/programmes/analysis/transcripts/01.10.12.pdf

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Tagged as: obama, soft power, Stati Uniti d'America, usa

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