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Il matriarcato

Creato il 30 gennaio 2011 da Lacapa
Il matriarcato

foto:flickr

 

Ogni mattina suona la mia sveglia, alle sette. Io bestemmio, apro gli occhi, e dico alla sveglia di suonare di nuovo tra cinque minuti. Cinque minuti dopo la sveglia suona. Io bestemmio, apro gli occhi, e dico alla sveglia di suonare di nuovo tra cinque minuti. E così fino alle otto. A quel punto sono in ritardo. Bestemmio, apro gli occhi, tiro via le coperte, e bestemmio per il freddo.

Nel tragitto dalla mia stanza al bagno, spero sempre di non incrociare nessun membro della mia famiglia: alle domande rispondo grugnendo, alle richieste di spiegazioni mi arrabbio e comincio a dire un sacco di brutte cose sul lavoro, sulla sveglia, sulla notte troppo breve e sul fatto che la sera devo andare a letto prima, cioè alle nove, praticamente.

Dopo il caffè la situazione non migliora. Perché i venti minuti che mi sono serviti per lavarmi, vestirmi e bere direttamente dalla moka hanno trasformato le otto nelle otto e venti, di conseguenza il mio lieve ritardo ha assunto le proporzioni di una catastrofe.

Firmo l’ingresso, in ufficio, alle otto e mezza. E a Catania il traffico non perdona, ma mi permette di fumarmi almeno un paio di sigarette incolonnata in mezzo a una strada qualsiasi.

A destinazione ci arrivo trafelata, con lo sguardo cattivo e la terza sigaretta in mano, dopo aver passato quindici minuti buoni a cercare un buco dove infilare la mia bellissima Vanda, la Fiat Panda blu romantico di cui sono follemente innamorata.

Responsabile 1 e Responsabile 2, dopo un mese, l’hanno capito che prima delle 12:00, due caffè e tre sigarette, non sono in grado di intendere e di volere, e mi guardano con un misto di ammirazione e disprezzo. Loro sono le donne che mi danno da lavorare ogni mattina, a quel dannatissimo part-time universitario al quale ho scelto di votare centocinquanta preziosissime ore della mia vita.

Sono due donne sulla quarantina, molto diverse tra loro. Responsabile 1 è piccola piccola e magra magra, ha un nome buffo, si alza tutti i giorni alle cinque meno un quarto, mangia solo una volta al giorno e si nutre di mozzarella e prosciutto crudo, e nient’altro. Non fuma e non beve, però dice un sacco di parolacce, è fan dei Pooh, di Laura Pausini, di Checco Zalone e del suo cane, una labrador di pochi mesi uguale identica a quella della pubblicità della carta igienica. Responsabile 1 è nevotrica, zoppica per via della tendinite, eppure prima che sorga il sole è già per strada a correre: due ore nei giorni lavorativi, tre il sabato e la domenica.

Responsabile 2 è alta alta e magra magra, ha un nome buffo, due figli e un marito, mangia qualunque cosa le si piazzi davanti e alle undici fa merenda con i biscottini che tiene nel cassetto della scrivania, altrimenti sviene dalla fame. Beve tre caffè e non fuma più da quando è rimasta incinta del primo figlio. A meno che non si tratti di sigari alla cannella da immergere nel rum prima di accenderli. Suo marito minaccia sempre di toglierle i soldi, perché compra roba inutile e vizia i due bambini, che lei adora, pur definendoli due «rincoglioniti scansafatiche».

Responsabile 1 e Responsabile 2 parlano un sacco e si fanno gli affari miei in continuazione, e non capisco se lo facciano per prendermi in giro o perché hanno capito che io prendo un po’ in giro loro, però in fondo è piacevole stare a sentire le loro storie, i pettegolezzi dell’ufficio, i retroscena dell’amministrazione di un ente pubblico, fatti di gelosie, bugie e favoritismi.

Quando poi nella stanza entra Collega 1, Responsabile 1 e Responsabile 2 tacciono di colpo e non smettono un attimo di sorridere.

«Come sta il bambino?», le domandano.

«Tutto bene, peccato per stamattina che non stava tanto bene di stomaco», risponde Collega 1, che ogni giorno ha un malore diverso del piccolo da raccontare.

A quel punto la discussione si sposta sui figli, i pediatri, le medicine, i mariti che non sono capaci neanche di fare la spesa.

La parte diventente arriva dopo, quando Collega 1 esce.

«Dio, quant’è grassa», dice Responsabile 2.

«Ma che t’importa?», si stupisce Responsabile 1.

«Assolutamente niente, è solo che a vedere Collega 1 ti rendi conto del perché la Capoccia l’abbia scelta come amichetta del cuore: Collega 1 è brutta e la Capoccia non rischia di sfigurare alle riunioni», argomenta senza staccare gli occhi dal computer Responsabile 2.

La Capoccia (da non confondere con la sottoscritta) è la diretta superiore di Responsabile 1 e 2, è bionda, magra, giovane e molto bella. Però è pure intelligente e puntigliosa: ha le carte in regola per essere una stronza, e ci sono abbastanza indizi che fanno credere che lo sia sul serio.

Lavorare in quell’ufficio è uno spasso, meglio di una puntata di Beautiful e Cento Vetrine, meglio di una riunione di condominio.

Tutte le donne del gineceo parlano male l’una dell’altra, si odiano segretamente e si sorridono se s’incontrano nei corridoi. Si invitano a cena reciprocamente e scelgono il menù con una settimana d’anticipo, quando cominciano a pulire casa e a nascondere i soprammobili più pacchiani. Se una scopre, per caso, che il Dirigentissimo passerà per un’ispezione telefona immediatamente a una collega a caso: «Tesoro, tra cinque minuti mi prendo una pausa e mi preparo una tisana, ci vediamo in sala archivio e facciamo quattro chiacchiere?».

E la sala archivio è in fondo al corridoio. I tempi sono calcolati con precisione svizzera: la collega a caso uscirà dall’ufficio con la sua tazza in mano piena di tisana fumante e, a pochi passi dalla sala archivio, si imbatterà nel Dirigentissimo, impallidendo. Rimprovero di lui e mortificazione di lei. Il Dirigentissimo, nel frattempo, continuerà il suo giro ispettivo e troverà colei che ha alzato la cornetta e fatto la telefonata traditrice seduta alla sua scrivania, sommersa da incartamenti, con le dita che battono velocissime sulla tastiera.

In una sola mossa, l’impiegata in questione avrà raggiunto due obiettivi: screditare l’avversaria e farsi bella agli occhi del superiore dei superiori.

Come vi dicevo, lavorare in quell’ufficio è uno spasso. Ed è anche lo spunto per un serissimo studio antropologico: un paio di settimane ancora e avrò capito perché il matriarcato non è una forma di governo auspicabile in nessun caso.

Tu sei molto anche non sei abbastanza e non vedi la distanza che è fra i miei pensieri e i tuoi.
Tu sei tutto, ma quel tutto è ancora poco, tu sei paga del tuo
gioco ed hai già quello che vuoi.
Io cerco ancora, e così non spaventarti quando senti allontanarmi: fugge il sogno, io resto qua.


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