Ed eccoci ancora qui con i nostri consigli agli scrittori tratti dagli Scatoloni in Soffitta.
Oggi parleremo di:
Tecniche narrative: narrazione in prima persona
Con il termine narratore si indica colui che racconta la storia.
Deve essere realistico ma funzionale, ovvero non deve essere confuso con l’autore, ma deve avere una propria visione degli accadimenti.
Il narratore può essere:
- onnisciente: conosce alla perfezione situazioni del presente, passato e futuro, conosce la psicologia dei personaggi, ciò che pensano, come agiscono, perché agiscono.
- esterno alla storia: non è coinvolto nella trama e si limita a raccontarla; generalmente è onnisciente.
- interno alla storia: è un personaggio della storia stessa; di solito non è onnisciente.
Il narratore può adottare diversi punti di vista (focalizzazioni):
- focalizzazione zero: si ha unicamente quando il narratore è esterno alla storia e onnisciente; il lettore è messo nelle condizioni di dominare tutta la narrazione, essendo informato di tutto da un narratore che penetra nei pensieri dei personaggi e si trova in più posti diversi contemporaneamente.
- focalizzazione interna: quando il narratore adotta un punto di vista interno, cioè simile a quello che può avere un personaggio che conosce solo determinate vicende.
- focalizzazione esterna: quando il narratore adotta un punto di vista esterno e ne sa meno dei personaggi stessi riguardo a una determinata vicenda; un esempio tipico è il romanzo poliziesco e, più in generale, quegli stili in cui deve prevalere la suspense.
Quando ci sono più narratori, si dividono per gradi:
narratore di primo grado, colui che comunica direttamente con il lettore; narratore di secondo grado, la persona che ha comunicato qualcosa a quello di primo grado; narratore di terzo grado eccetera.
Per esempio, ne I promessi sposi, il narratore di primo grado, che racconta la vicenda di Renzo e Lucia, afferma di aver trovato un manoscritto di un anonimo, il quale è il narratore di secondo grado.
La controparte del narratore è il narratario, ovvero colui che riceve il racconto del narratore; è il personaggio che compare nel testo come eventuale destinatario di ciò che il narratore enuncia. Un lettore implicito (non quello reale che sta leggendo l’opera) a cui l’autore si riferisce.
Per esempio, ne Le ultime lettere di Jacopo Ortis, Lorenzo Alderani – a cui le lettere sono destinate – è il narratario.
Questa piccola guida è opera di:
Bee
Chi sonoSono una più che trentenne emotiva e compulsiva. Mentalmente iperattiva, ma fisicamente vegetante. Fumo come il proverbiale turco. Adoro i cartoni animati, perdo troppo tempo in rete. Parlo da sola (anche in pubblico), faccio i crucipixel a penna. E ogni tanto scrivo, per lo più storie che non hanno un finale.
NARRAZIONE IN PRIMA PERSONA
La prima persona conosce solo quello che gli succede o di cui viene a conoscenza.
Questo è un aspetto semplice da rispettare, ad esempio ci si rende facilmente conto di come sia un errore una frase come:
Al bar incontrai Maria e le offrii un caffè. Grattava la zip della borsa e puntava lo sguardo sulla tazzina senza tuttavia toccarla. Maria voleva dirmi qualcosa che la turbava (fino a qui si può presumere che sia una deduzione del narratore), pensava a quello che aveva appena fatto e non riusciva a darsi pace.
Perché il narratore non può sapere cosa Maria stia pensando. Questo errore grossolano è facilmente evitabile, anche a livello intuitivo.
Ci sono però delle insidie nell’uso della prima persona.
La prima, che si evince anche da questo esempio, è il fatto che sia un punto di vista limitato.
Il narratore può dedurre che Maria stia pensando a qualcosa che la turba, può capirlo dai gesti, da altri fatti di cui è a conoscenza, ma non ne ha la certezza.
Siccome il narratore in prima persona può riferire solo ciò che conosce, possono nascere problemi nel far progredire la trama, se è necessario che il lettore abbia più informazioni del narratore. Non tutte le trame infatti sono adatte a questo punto di vista.
Per superare questo ostacolo ci sono degli stratagemmi:
- il più comune è che il narratore venga a conoscenza di qualcosa a cui non ha assistito perché riportato da altri, ad esempio attraverso un dialogo, o perché si imbatte nell’informazione che gli manca, ad esempio leggendo una lettera o un articolo di giornale, parlando con i morti, ecc.
Spesso lo farà dopo che l’evento è accaduto, e questo può essere utile per far evolvere la trama, mostrare cambiamenti delle credenze e delle convinzioni del personaggio.
- si può cambiare il narratore per alcuni capitoli. Sia utilizzando in prima persona un altro personaggio, sia utilizzando la terza persona.
Non è sempre la soluzione migliore: nel primo caso può accadere che la caratterizzazione di più personaggi in prima persona non renda bene, perché non si notano differenze sostanziali tra i personaggi e si vede l’artificio (avendo solo una voce da caratterizzare, non uscendone mai, questo si nota meno); nel secondo caso c’è uno stacco che può apparire forzato.
Però se ben gestite si possono fare entrambe. Se si sceglie una di queste tecniche, è meglio che non sia un caso sporadico per dirimere un punto difficile della trama, ma che i diversi punti di vista tornino nel corso della storia e si alternino, altrimenti al lettore sembrerà un’intrusione, una scappatoia facile, e darà l’effetto di un artificio.
Non ci sono regole fisse, se non che il narratore scelto deve essere funzionale alla trama.
Se i problemi nell’uso della prima persona diventano numerosi, allora è meglio narrare la storia in terza persona (una terza persona focalizzata* potrebbe essere un giusto compromesso).
Si sceglie la prima persona perché la distanza fra il narratore e il personaggio scompare.
Ciò aiuta l’immedesimazione: il lettore è nella testa del personaggio, soffre con lui, ne conosce la sensibilità, le motivazioni più intime, i pensieri; non ci sono filtri.
Bisogna però prestare attenzione perché questa forte immedesimazione non degeneri: il rischio è che il narratore possa diventare troppo analitico, ridondante, spiegando come si sente ogni momento e perché. Questo rallenta la narrazione, se si usano troppi pensieri e troppa poca azione.
Se da un lato l’assenza di distanza può aiutare l’immedesimazione, dall’altro c’è un problema con la distanza di tempo.
A meno di non narrare al presente, cosa che dona immediatezza ma che per un intero romanzo può stancare, l’uso della prima persona e del tempo passato pone un problema non da poco: leggendo una storia narrata in prima persona, al passato, il lettore avrà la sensazione di fatti già avvenuti e probabilmente conclusi.
Sa ad esempio che il personaggio non morirà, altrimenti non potrebbe narrarci questi fatti. E sa che il narratore conosce anche la fine della storia, che conosce l’evolversi di ogni singola scena perché ne è protagonista o spettatore.
Qui si può però creare un patto con il lettore, una sospensione dell’incredulità*: per logica so che tu conosci quello che è successo e che quando mi racconti della tua curiosità riguardo a ciò che Maria deve dirti è una costruzione, perché mentre stai narrando sai già cosa Maria ti ha rivelato. Ma lo accetto perché in cambio potrò godere della sensazione del viverlo insieme a te, provando la stessa ansia, la stessa preoccupazione, chiedendomi cosa succederà.
Questo patto per funzionare deve seguire delle indicazioni.
Premettere frasi come
Incontrai Maria al bar e le offrii un caffè. Sembrava nervosa. Non avrei mai immaginato cosa stava per dirmi di lì a poco
è un errore. O meglio, nulla vieta di farlo, ma aumenta la distanza nel tempo, e diminuisce l’immediatezza, la sensazione di vivere le vicende insieme al protagonista.
È anche più facile annoiare, perché creando la distanza temporale il lettore non vive più insieme al narratore quello che sta accadendo, ma si ritrova ad ascoltare un racconto di cose già successe. Si perde il pathos.
Si può volere che la distanza di tempo sia grande, è una scelta. Uno scrittore capace può raccontare quello che vuole e come vuole e incantare con la sua prosa, può giocare con il lettore alternando i piani temporali, ma in generale aumentare la distanza di tempo fa perdere l’immedesimazione.
Per diminuire la distanza di tempo è necessario mostrare la scena, non raccontarla*.
Alcuni trucchi:
- eliminare i vari “pensai di”, decisi di” e simili, e scrivere direttamente l’azione che segue. In modo che ciò che racconto dia l’impressione di contemporaneità con la lettura;
- evitare descrizioni inutili in quel momento, perché il personaggio è concentrato solo su quello che maggiormente lo interessa. Ma neppure abolirle del tutto: far capire quali sono i particolari importanti che hanno significato, non far sparire il contesto;
- utilizzare piccoli inserti di flusso di coscienza. Un’intera narrazione in questo modo è pesante anche se lo scrittore che la usa è Joyce, figuriamoci tutti gli altri, ma qualche momento vissuto in contemporanea con la voce interiore del narratore ci fa cogliere l’immediatezza della situazione.
Per esempio:
Maria alzò lo sguardo, gli occhi erano velati di lacrime. Che diavolo le era successo?
Porta il lettore nel tempo della scena molto più che:
Maria alzò lo sguardo, gli occhi erano velati di lacrime. Mi chiesi cosa potesse esserle successo.
Il primo esempio accorcia la distanza di tempo, perché non mi dilungo a dire che in quel momento mi chiesi cosa fosse successo a Maria, ma me lo chiedo e basta.
Un altro aspetto legato al “mostrare” è il tipo di linguaggio: termini più colloquiali rendono di più l’immediatezza (sto vivendo quella scena in questo momento, non la sto ricordando e raccontando filtrata).
Se mi trovo una multa sul parabrezza nell’immediato penso “ma porca vaccaccia ladra“.
Solo più avanti, ricordandolo, potrò dire che “in quel momento mi sembrò di trovarmi vittima di una congiura ordita da dei, demoni, vigili urbani e politici“.
Entrambe le tecniche sono efficaci: la prima velocizza l’azione e dà immediatezza, l’altra la rallenta e permette di esprimersi meglio e di dare un tono narrativo più ragionato (può essere ironico, o malinconico, o profondo, a seconda del personaggio narrante).
Un romanzo solo di pensieri istantanei diventerebbe un macigno, uno di sole rimembranze e analisi idem. I risultati migliori si ottengono mischiando le due cose, giocando con il ritmo, rallentando e accelerando in base a cosa sto narrando.
Raccontare invece di mostrare permette, riguardo alla questione del tempo, di sintetizzare lunghi periodi in poco spazio. Mostrando, il tempo della narrazione coincide con quello dell’azione; raccontando si riassume, magari un mese intero in un paragrafo.
Anche in questo caso potremmo aver bisogno, all’interno del nostro romanzo, di entrambe le tecniche, per far passare in poche righe un periodo di tempo che non vale la pena di organizzare in scene. Il nostro narratore starà quindi ricordando e raccontando cose già avvenute, non ci saranno dialoghi, la sensazione che si avvertirà leggendo è che sia un tempo già passato. Difficilmente sarà un tipo di narrazione ricca di suspence, il nostro lettore si accorgerà di questa distanza.
Quando la scena dovrà farsi più vivida e immediata, invece, porrò il narratore appena dopo i fatti accaduti – in una ipotetica linea del tempo – come se raccontasse la sera gli eventi della giornata, fino ad arrivare al culmine con la contemporaneità, quando la scena dovrà essere vissuta dal lettore esattamente al tempo in cui sta succedendo al narratore.
L’ultima insidia riguardo l’uso della prima persona è il modo di organizzare eventi e pensieri, non sul piano del tempo ma su quello della credibilità.
In terza persona è più giustificata, grazie alla distanza fra narratore e personaggio, una descrizione dei pensieri; in prima persona lo è meno.
Se penso a qualcosa non organizzo il discorso con calma, infatti i flussi di coscienza sono nati per sperimentare un modo più veritiero di rappresentare l’identità di un personaggio e le sue sensazioni, ma a lungo andare stancano.
Un compromesso è quello di esagerare rispetto alla realtà: in una scena reale, se ad esempio mi innervosisco prima di un esame, sfoglio il libro di testo, muovo la gamba a ritmo frenetico, picchietto sul banco, ma non sono del tutto cosciente di quelle azioni, di certo non me le elenco in mente. Scrivendo in prima persona sono costretta a farlo, perché altrimenti il lettore non riuscirà a vedere il personaggio e sarà sommerso dalle sue sensazioni.
I piccoli gesti aiutano a far passare le sensazioni, perché chi legge non è il personaggio, deve sapere cosa sente, ma anche vederlo.
Allo stesso modo organizzerò i pensieri in modo più concreto rispetto alla realtà: userò più metafore di quelle che uso nella vita reale, espliciterò le associazioni sfruttando i ricordi del personaggio, legandolo così alle azioni e unendo una scena all’altra, riprendendo cose passate, creando una storia lineare.
L’insidia nell’insidia è di esagerare. La prima persona ha senso se è ben caratterizzata, se esprime anche nello stile il carattere del personaggio: mentre la terza può permettersi di essere più invisibile e funzionale alla storia, la prima deve spiccare.
Se elenco una serie di azioni:
Mi alzai, andai in bagno, mi lavai i denti, con lo spazzolino in bocca raggiunsi la porta e raccolsi la posta da terra. Nessun biglietto di Maria.
il rischio che il personaggio sembri “silenzioso” è più forte che con la terza, perché si presume che il narratore, anche se in modo non invadente, commenti con le sue sensazioni quello che fa. Altrimenti è come guardare dall’esterno, ma noi siamo all’interno.
Meglio scrivere:
Mi alzai e di colpo tornò il pensiero di Maria. Neanche un attimo di tregua. Andai in bagno e mi lavai i denti. Con lo spazzolino in bocca e il cuore che batteva speranzoso, raggiunsi la porta e raccolsi la posta da terra. Magari si era pentita e avrei trovato uno dei suoi biglietti di scuse con quei cuccioli da iperglicemia. Niente. Solo bollette e il volantino di una pizzeria a domicilio.
* vedesi terza persona focalizzata nel post “narrazione in terza persona” negli Scatoloni in soffitta (di cui parleremo anche nel prossimo articolo) e sospensione dell’incredulità e show don’t tell negli articoli precedenti sul “Prontuario del perfetto scrittore: tecniche da sfruttare”.
Nella prossima puntata parleremo di: Tecniche narrative: seconda e terza persona.
Questa piccola guida sulla prima persona è opera di:
Nerina
Chi sonoBella domanda. Se fossi una filosofa riempirei pagine e pagine a questionare sull'essere. Ma non sono una filosofa. Amo scrivere, ma il più delle volte odio come lo faccio. Mi trovo bene fra i branchi di cani. Mi piace l'acqua. Bere dalla bottiglie e le piscine. Tutto qua ^^