Avvertenza! Il post che segue descrive una realtà sicuramente parziale, ma è quella che ho avuto ed ho tuttora sotto gli occhi, perlomeno per quanto riguarda le facoltà umanistiche. Non so invece nulla, relativamente a quelle scientifiche.
Cari amici, il vero cancro dell’università non è la mancanza di fondi. Se anche ci fossero fiumi di denaro, la ricerca sarebbe sempre uno schifo fin tanto che sarà in mano ai baroni, a quei vecchi ex- sessantottini tronfi e ormai rincoglioniti che hanno colonizzato le università di tutta Italia e fermando la cultura del paese sui loro lucidi e sulle loro sbiadite fotocopie di programmi che si ripetono ormai sempre uguali da vent’anni.
L’università non può salvarsi fin tanto che il sistema dell’accesso alla ricerca non verrà tolto dalle mani di questi vanesi e umorali tromboni. Il risultato è che un candidato “interno” (cioé proveniente dalla stessa università che bandisce il posto) ha un accesso privilegiato, se non garantito, rispetto ad un genio che dovesse presentarsi come esterno. Ma non solo: è risaputo che il membro interno è quello che ha peso politico e che la maggior parte di questi concorsi sono già determinati in partenza. Cioè piazza uno dei suoi. Gli esaminatori esterni non romperanno troppo le palle, per evitare che qualcuno rompa loro le palle, quando si bandirà un posto nel proprio dipartimento.
Del resto, che altro aggiungere quando non esistono criteri chiari di valutazione, per esempio, delle pubblicazioni ed è la commissione che può far valere 1 una pubblicazione su Nature e 5 un articoletto sull'Eco del Chisone?
Il risultato è che sempre più spesso i ricercatori nascono in una università, fanno il dottorato in quella università, diventano ricercatori e associati in quella stessa università, muoiono in quella università. Ricercatori che non hanno mai messo piede manco in un’altra regione italiana, figuriamoci all’estero. Ricercatori che conoscono l’inglese come bambini di terza media. Che pubblicano su rivistine locali che sembrano il giornalino della scuola.
Quali aperture mentali possono essere garantite con questi criteri? Quali novità possono arrivare da ricercatori il cui unico talento richiesto è quello di perpetuare il proprio tronfio barone, replicandolo nel dettaglio finché morte non li separi?
E perché io devo battermi a favore di ricercatori per lo più selezionati in questo modo?
Passando alla politica. Una donnetta mediocre come la Gelmini, costretta a correre a Reggio Calabria per superare l’esame di avvocatura, non ha alcuna credibilità quando parla di merito. Non a caso, la sua riforma non sfiora nemmeno la tragedia del baronato, sebbene lei, se ne riempia la bocca.
Perfino l’emendamento finiano è un pannicello tiepido che non serve a nulla. Impedirà forse ai parenti diretti l’accesso a concorsi banditi dai propri padri o zii, ma per quanto detto sopra cosa fa? Nulla.
Non vi è traccia, nel nostro paese, dell’idea di una vera riforma universitaria basata in primo luogo sul merito, sul modello di paesi sviluppati come l’America. E questo valeva già per quella Berlinguer del 1998 e per quella Moratti del 2005.
Perché, in realtà, da noi il merito fa paura. Perché non è detto che questo sia necessariamente associato all’ubbidienza e all’eterna gratitudine. E questo, nel sistema italiano, non va proprio bene.
PS Piccola curiosità: nell’Università di Torino nella quale mi sono laureato abbiamo il preside, suo figlio, insieme alla madre e all’attuale amante del padre, tutti allegramente nella stessa facoltà. Roba che possono fare le feste di famiglia direttamente in dipartimento. Auguri.
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