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Il messaggero

Creato il 13 marzo 2012 da Connie
Il messaggero
Ero un ragazzo quando accadde.  Eppure anche adesso, quando liscio i miei folti baffi neri o sistemo una spilla sulla mia cravatta, tremo al pensiero di quella visione.  Rabbrividisco al solo ricordo, mi si gela il sangue, sebbene io cerchi di convincermi, a distanza di tanti anni, che si sia trattato soltanto di un’allucinazione. Non ricordo il giorno esatto, ma posso affermare con assoluta certezza che avvenne in pieno inverno, forse un Dicembre del 1886, sotto una fitta e candida neve. Nevicava oramai da due giorni e due notti. Era meraviglioso osservare l’immenso candore che ricopriva le tegole delle case, mentre i camini fumavano e la nebbia avvolgeva la campagna. Gli alberi erano traboccanti di gelo, e già parecchie volte ero riuscito a stanare gli scoiattoli a colpi di sassi; li rincorrevo lungo i muri di pietra, mantenendo l’equilibrio, tanto che al paese mi avevano paragonato più di una volta a un leprotto per il mio modo di correre. Devo confessare infatti che nessuno era mai riuscito a battermi nella corsa e proprio per questo mi venivano affidate le mansioni che richiedevano una puntualità  esagerata. Avevo all’incirca una dozzina d’anni e lavoravo presso una segheria per aiutare mia madre, una sarta, in modo che potessimo tirare avanti, dopo la morte di mio padre. Ero il maggiore di cinque figli, ma non per questo il più responsabile poiché non c’era giorno in cui non facessi a botte con gli altri ragazzi, soprattutto con quelli più grandi, quando mi stuzzicavano o quando mi lanciavano addosso palle di letame indurito. La mia povera madre si era oramai abituata a vedermi tornare con i vestiti strappati e con le sbucciature sui gomiti e sulle ginocchia. A parte questo, c’era anche chi sosteneva che non avevo paura di nulla. Questa fama mi costò parecchia responsabilità, poiché come accadde, fui partecipe di un avvenimento in cui una persona normale avrebbe perso il senno, se non addirittura la propria salute mentale. Il magazzino in cui lavoravo era poco distante da casa mia, forse un paio di miglia, la sera però mi toccava attraversare al buio un piccolo bosco sulla riva del fiume. Non potevo permettermi di consumare l’olio della lanterna ogni sera, così andavo tentennando tra le ombre degli alberi, mentre la luna mi rischiarava il cammino. Non avevo mai avuto paura dei luoghi oscuri e neppure di quell’innocuo boschetto, nonostante questo però, correvo nelle tenebre come un forsennato, sperando di intravedere al più presto la luce della lampada che mia madre lasciava fuori dalla porta per darmi un segnale. Quella sera avevamo finito più tardi del solito. Gli altri uomini erano saltati sui loro carri prima che io potessi coprirmi con il mio mantello consumato. Li vidi sparire nel buio, nella direzione opposta alla quale mi dirigevo io. Mastro  Silvano, il mio capo, era un uomo piuttosto rude. Odiava che qualcuno lo contraddisse e faceva tremare i muri se gli chiedevano il salario in anticipo. Quella sera io glielo chiesi, rischiando una delle sue famose sberle; non era colpa mia se il prezzo del pane era aumentato e noi eravamo in sei, con la mia sorellina piccola a letto malata. Lui iniziò a bestemmiare e mi allontanò in malo modo, dicendomi di venire un’ora prima l’indomani mattina per lavorare di più. Sconsolato, sospirai e nella mia mente lo riempii di insulti,  senza aver però il coraggio di aprir bocca poiché era l’unico lavoro che avevo. Non ero il solo a lamentarmi del nostro capo Mastro, anche gli altri uomini lo ricoprivano di parolacce durante la pausa del pranzo quando lui si allontanava, e io mi univo a loro. Come il più piccolo dei lavoratori mi davano ragione e mi dicevano «Povero ragazzo, povero Antonio che deve mantenere la madre e quattro fratelli!»In parte, eravamo una strana confraternita, un’associazione segreta contro il padrone, ma nessuno aveva mai avuto il coraggio di ribellarsi. Quella notte sentivo la neve scendere sulle mie spalle, scivolarmi dolcemente lungo la schiena, come se fosse un mantello irreale, impalpabile. I miei piedi erano congelati, percepivo il ghiaccio sotto i talloni e rabbrividivo, stringendomi al petto la borsa da lavoro. Corsi come al solito. Non era una notte come le altre, avevo intuito qualcosa di strano nell’aria, qualcosa che non c’era mai stato, eppure mi riusciva difficile spiegare cosa fosse. La neve brillava e il vento soffiava, mi penetrava fin dentro le ossa e io non vedevo l’ora di accoccolarmi davanti al fuoco, con accanto mia madre mentre cuciva, come una consolazione. All’improvviso, tra la neve e la fitta nebbia, intravidi una casa che non avevo mai visto prima, sebbene avessi percorso quella strada centinaia di volte. Il camino fumava e all’interno era rischiarata dalla debole luce di una candela. Curioso, mi avvicinai un po’ impaurito e sbirciai attraverso la finestra: vidi un uomo, seduto a un tavolo che scriveva, contemplando quel foglio con estrema attenzione, assorto in profonde meditazioni. Mi vide immediatamente, sebbene fuori fosse buio. All’inizio mi guardò fisso come se avesse trovato una conferma, poi mi fece cenno di entrare con la mano, offrendomi il più caldo dei sorrisi. Sulle prime ne ebbi paura, poi entrai, incoraggiato dai suoi modi garbati e cortesi. «Siedi, ragazzo» mi ordinò e io mi sedetti sulla sedia di fronte a lui. Lo guardai. Era pallidissimo in volto, i suoi vestiti erano laceri, aveva il viso scarno, gli occhi infossati eppure manteneva un che  di dignitoso e composto. Quello che mi sconvolse di più fu il suo occhio destro, lo teneva chiuso come se fosse stato ferito da poco, forse da una bruciatura. Cercai di non fissarlo. «Come ti chiami, ragazzo?» mi chiese. Io risposi, con aria noncurante, fingendo che il suo aspetto non mi avesse sconcertato. «Lavori alla segheria di Mastro Silvano, vero?» aggiunse. Poi, senza attender risposta, come se mi conoscesse già da tempo e fosse sicuro del fatto suo,  continuò «Ho bisogno che tu mi faccia un favore.»Piegò il foglio che aveva appena finito di scrivere e lo infilò in una busta, chiudendola. «Porta questa lettera al tuo padrone, consegnala domani mattina. E digli che lo saluta il signor Vitali.»Mi stupii della mia sfacciataggine e gli chiesi che cos’era. «È un messaggio, soltanto un messaggio» rispose lui e sorrise in un modo talmente lugubre che per i giorni seguenti non potei evitare di ricordare ancora quel riso, dopo tutto quello che seppi in seguito.Ancora adesso lo rivedo in sogno a volte, e quando mi sveglio non posso fare a meno di tremare.Mi ordinò di andare a casa prima che facesse ancora più freddo, ma aggiunse «Ti raccomando di non aprire questa busta, per il tuo bene figliolo. Non è un messaggio riservato a te, deve essere Mastro Silvano ad aprirla, lui e nessun altro.»Questo stuzzicò ancora di più la mia curiosità. Di cosa si poteva trattare? Cosa c’era scritto di tanto importante?Salutai l’uomo e corsi via. Dopo quel misterioso incontro, la strada verso casa sembrò accorciarsi e arrivai in men che non si dica. Mia madre aveva acceso il lume davanti alla porta e mi stava aspettando con un piatto di zuppa calda. Non le raccontai nulla dell’accaduto, volevo solamente andarmene a letto e aspettare l’indomani per consegnare quel famoso messaggio, sarebbe stato questo l’unico modo per scoprirne il contenuto. Non sentii più neanche il freddo. Misi la lettera sulla sedia e mi infilai sotto le coperte. Strano a dirsi, quella notte malgrado la stanchezza, non riuscii a prendere sonno. Mi giravo e mi rigiravo nel letto, fissavo la lettera sopra la sedia e desideravo più di ogni altra cosa aprirla. Non mi ero mai sentito così a disagio. Più di una volta mi ero alzato e l’avevo presa in mano: sentivo che qualcosa mi attirava verso di lei, dovevo per forza leggerne il contenuto, altrimenti non sarei riuscito a chiudere occhio. Ma avevo promesso a quell’uomo di non aprire per nessun motivo quella busta, e io mantenevo sempre la parola. Ancora non so come riuscii a resistere. Giunse finalmente l’alba, dopo la notte più lunga della mia vita, mentre la curiosità ancora mi tormentava. Come ordinato dal Mastro, per punizione dovevo andare a lavoro un’ora prima; ci andai ancora più in anticipo, sperando di trovarlo già lì e di togliermi quel tormento di dosso. Corsi lungo la boscaglia correndo più velocemente di quanto fossi capace, ripercorsi la strada che avevo fatto la sera precedente ma la casa al centro del bosco era sparita. Cominciai a credere che si fosse trattato di uno scherzo del freddo, forse ero svenuto per assideramento e avevo sognato tutto, eppure la lettera era nelle mie mani. Questo influì ancora di più sui miei sensi e mi spinse a raggiungere il più presto possibile la segheria per risolvere quel mistero. Mastro Silvano non credette ai suoi occhi quando mi vide arrivare a quell’ora. «Bravo, sei puntuale! Adesso mi divertirò a darti del lavoro superfluo da fare!» mi disse. Io non persi tempo e gli consegnai la lettera. Gli dissi che il signor Vitali lo salutava e che l’avevo visto ieri sera, in una casa al centro del bosco.Lui improvvisamente impallidì e tremò. Iniziò a rabbrividire e mi disse che ero un bugiardo. Non capii la sua reazione, sulle prime si rifiutò di aprire la lettera, mi guardò con l’aria di un folle, poi le sue dita agitate la strapparono di colpo nella parte superiore. I suoi occhi scivolarono lungo il foglio. I suoi tremori diventarono sempre più forti, ci raggiunsero gli altri uomini e lo soccorsero, udendo le urla. Lui si accasciò a terra, proprio nel cortile davanti all’entrata e si mise a gridare come un forsennato, farfugliando parole senza senso, tanto che ne rimasi terrorizzato.«Mi sta uccidendo lui, è la sua vendetta! Bastardo, è un bastardo, e mi vuole morto!» urlava. Nessuno sapeva di cosa stesse parlando, tanto meno io.In preda ai tremori e alle urla, Mastro Silvano morì di una morte violenta e fulminea, e gli altri uomini si guardarono spauriti. «Cosa è  successo?» mi chiesero guardandomi di traverso.Io raccontai della lettera e presi il foglio in mano. Sulla carta c’era scritta solo una frase, con l’inchiostro nero:“Ti rendo ciò che mi hai dato.”«Chi te l’ha data?» mi chiesero. Io dissi il nome dell’uomo. «Sei un bugiardo» risposero gli altri. «Vitali lavorava con noi cinque anni fa. Morì a causa di un collasso mentre svolgeva le sue mansioni.»Questa volta fui io a non crederci e a chiamarli bugiardi, perché quell’uomo lo avevo visto con i miei occhi, la notte prima, vivo e in salute.Venne fuori che il signor Vitali era morto il giorno dopo in cui aveva perso un occhio, nella segheria. Aveva litigato con Silvano per via del salario, che il padrone non gli aveva voluto anticipare. Durante la lite Mastro Silvano aveva preso una candela e gli aveva bruciato l’occhio destro per difendersi nella lotta. Mi dissero pure che la famiglia Vitali oramai non esisteva più, erano tutti morti di fame, sia sua moglie che il suo unico figlioletto.  Prima abitavano nella boscaglia, dopo la morte della moglie però, la casa era stata rasa al suolo e non esisteva più nulla. Rimasi sconcertato. Avevo parlato con un fantasma quindi? Mi vennero i brividi lungo la schiena. Dunque quella lettera non era stata altro che un annuncio di morte e se l’avessi aperta, forse sarei morto io invece che Mastro Silvano. Tremai pensando a questo. Tremai ripensando a quanto avevo desiderato aprirla durante tutta la notte, e ai momenti in cui stavo per soccombere alla curiosità.Caddi seduto a terra, privo di forze mentre portavano via il mio padrone morto e mi resi conto di aver rischiato la vita. Compresi quello che mi era accaduto, il fantasma si era servito di me per compiere la sua vendetta. Per poco non fui sul punto di svenire, poi chiusi gli occhi e mi strinsi la testa tra le mani pregando Dio e tutti i santi di salvare la mia anima. Poi compresi che non avevo nessuna colpa di quello che era accaduto, poiché fin dal principio avevo ignorato ciò che quell’uomo morto aveva preteso da me.Il mio compito era stato un altro.Ero stato soltanto un messaggero di morte.

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