Il Messia mancato?

Creato il 03 ottobre 2011 da Oblioilblog @oblioilblog

La sintesi, perfetta, è di Salvatore Bragantini, ex commissario Consob:

I conti su Marchionne si faranno alla fine, ma se quando è arrivato come salvatore della Fiat mi è sembrato un marziano che sovvertiva le nostre regole stantie, ora mi sembra piuttosto un prestigiatore. Solo che non si sa ancora se nel cappello c’è davvero un coniglio, oppure no.

Se gli statunitense dovessero mai farci un film o un dvd, lo chiamerebbero con il poco originale titolo di Rise and Fall of Sergio Marchionne. Il super manager italo canadese sembrava destinato non solo a salvare la Fiat, ma pure a renderla una potenzia automobilistica mondiale. Ora la strategia sembra vacillare e si inizia a dubitare del successo. 

Partiamo dal presupposto che la Fiat è un’azienda sana. Certo, vende sempre meno: la quota di mercato è passata dal 9 al 7,3% in due anni e Moody’s ha di recente tagliato il rating, portandolo a Ba2. In borsa va pure peggio. Però i soldi nelle casse ci sono: 18 miliardi, sufficienti per l’autosufficienza per almeno un biennio.

Il problema è il piano industriale, che sembra latitare. L’obiettivo di Marchionne è chiaro: creare un grande gruppo internazionale da 5,9 milioni di vetture entro il 2014 per gareggiare, ad esempio, con i colossi Volkswagen e Renault. L’acquisizione di Chrysler era partita in quarta, ma ora sembra essersi impantanata nelle secche delle lotte sindacali, oltre a destare la preoccupazione degli analisti.

Sul fronte degli accordi, non va proprio alla grande. L’indiana Tata non è stata soddisfatta della collaborazione e ha più volte chiesto la revisione dei termini: Fiat si è rivelata non in grado di contrattare con un partner così imponente. Non procede meglio in Russia e in Cina, dove la fiacchezza dei locali non ha permesso di penetrare.

Con Chrysler si continua a strappi. Marchionne è amministratore delegato e presidente e possiede il 58% dell’azienda di Detroit. Il restante 40% è in mano al sindacato americano e qui partono le grane visto che gli operai sono pagati 14 dollari all’ora, più o meno come una colf. Si tratta. Ma la prospettiva è rovesciata rispetto all’inizio. In principio c’era una Fiat vigorosa corsa al capezzale della morente Chrysler con una medicina portentosa, ora è il colosso di Detroit l’ancora di salvezza per il marchio nostrano. Se n’è reso conto Montezemolo che agli amici confida:

Qui è Chrysler che salva la Fiat, non viceversa.

Si punta ad un grande gruppo da 58 miliardi di euro, due terzi da oltre Oceano, con forte accento yankee e Marchionne al timone fino al 2016. Ma i mercati si fidano poco di entrambe le aziende e quindi sono gelidi di fronte alla prospettiva di una fusione, con testa USA. Ci si domanda come farà a pagare i dipendenti visto il misero miliardo e otto impiegato per l’impresa.

Ma questo è l’unico piano per non far fallire Fiat, sostanzialmente. Quindi si tira dritto. Anche perché in Italia tira una brutta aria, sebbene Marchionne sia stato accontentato su tutto. Uscirà da Confindustria, il solo, nonostante sindacalisti accomodanti l’hanno assecondato stabilendo che le decisioni prese a maggioranza valgono per tutti: non è più necessaria l’unanimità. Sacconi l’ha pure messo al riparo dalle dispute con la Fiom con un articoletto ad hoc nella finanziaria.

Ma il piano industriale non decolla. Dei 24 modelli annunciati, solo la Panda, la Giulietta e la Ypsilon sono nuove, senza contare il francamente non esaltante Freemont. I concessionari protestano, anche perché Lancia e Alfa vendono un terzo di quello che dovrebbero.

Giuseppe Berta commenta malefico:

Marchionne il piano industriale non lo svela semplicemente perché non c’è. Lui fa come Napoleone: osserva la situazione e si comporta di conseguenza.

La realtà parla della Giulia, di una berlina e di una station wagon, attese per il 2012, rimandate a oltre il 2014. Il Suv di grandi dimensioni è dato per disperso e il “grande botto” del ritorno dell’Alfa in America è stato procrastinato di due anni.

Il grande progetto di investimenti Fabbrica Italia si è incagliato: la Cnh di Imola è stata chiusa, Termini Imerese vedrà la stessa sorte a fine anno, taglia la Irisbus di Avellino, nulla di nuovo a Mirafiori. Bolle qualcosa in pentola solo a Pomigliano, previsto un miliardo di investimenti per garantire un ventennio di attività, e nell’ex-Bertone dove saranno costruite 40 mila piccole Maserati. Ma se i modelli saltano, slitta anche la produzione. E se non c’è niente da produrre, è chiaro che i lavoratori stanno a casa.

Un’analista è perplesso:

Secondo la Fiat, per Fabbrica Italia si dovrebbero investire 16 miliardi di euro. A Pomigliano, l’unico sito in cui gli investimenti sono già partiti, si spenderanno al massimo 800 milioni. Ammettendo di investire la stessa somma su tutti gli altri quattro impianti italiani in cui producono auto, si sale intorno ai 4 miliardi. Come si arriva a 16 miliardi?

Probabilmente manca la volontà.

Fonte: L’Espresso


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